Libia: la fabbrica della tortura al tempo del coronavirus

Stefano Leszczynski

Libia: la fabbrica della tortura anche al tempo del coronavirus

 

L’inferno in terra esiste e si trova in Libia. Circa 450 km in linea d’aria a sud della Sicilia, più o meno la distanza che separa Roma da Milano. È importante tenere a mente questo dato perché quello che avviene laggiù ci dovrebbe riguardare per prossimità quanto ciò che sta avvenendo in questi giorni in tutta Italia 

 

A gennaio, poche settimane prima che le nostre vite venissero sconvolte dall’emergenza sanitaria, Avvenire e altri quotidiani avevano pubblicato i frame di un video girato da trafficanti libici in cui una donna eritrea era appesa a testa in giù e veniva torturata a colpi di bastone. Immagini che fecero una certa impressione anche sugli animi meno sensibili. Ecco, adesso facciamo conto che quella donna sia ancora lì, stuprata quotidianamente, tenuta a pane e acqua sporca, forse morta di stenti, forse affogata in mare. Difficile che sia riuscita a raggiungere Pozzallo e se anche ci fosse riuscita viene da chiedersi come potrebbero mai rimarginarsi le ferite che le hanno incise nell’anima i suoi carnefici. Ora moltiplicate questa donna per 40.000 che è il numero stimato di migranti detenuti in Libia in un reportage di Al-Jezeera del gennaio 2020, oppure per 540.000 che è approssimativamente il numero delle persone arrivate in Italia dalla Libia tra il 2014 e l’inizio dell’anno in corso.

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che è un’organizzazione intergovernativa, stima che in questo momento ci siano sul territorio libico circa 636.000 migranti, nonostante la guerra in corso. Di questi, poco meno di 5.000 sono attualmente detenuti negli 11 centri di detenzione per migranti formalmente sotto il controllo del governo di Accordo nazionale, quelli che secondo i recenti accordi Italia-Libia dovrebbero essere dei “centri d’accoglienza”. Accanto a questi c’è una miriade di centri di detenzione informale, gestiti da gruppi criminali, trafficanti, milizie di varia natura. Una costellazione dell’orrore di cui ci parla con dovizia di particolari il rapporto pubblicato da Medici per i diritti Umani-Medu, facilmente reperibile sul loro sito.

I migranti in Libia sono una risorsa economica non indifferente: innanzitutto, per il mare di soldi che viene versato a livello governativo dai paesi che sono interessati a non far arrivare i migranti in Europa; poi, per il denaro che viene loro estorto dai carcerieri; ancora, per il fiume di versamenti via Money transfer che i parenti all’estero pagano per tentare di riscattarli dopo aver ricevuto sul telefonino i filmati delle torture inflitte; poi, perché sono commerciati come schiavi a beneficio di alcuni privati libici; e, infine, perché sono venduti come merce tra i trafficanti che organizzano i viaggi sui gommoni, salvo avvisare la Guardia costiera e farli riportare indietro per un altro giro all’inferno.

Il rapporto di Medu si basa su oltre 3mila testimonianze raccolte principalmente in Sicilia, presso l’hotspot di Pozzallo e i centri di accoglienza di Ragusa e Mineo, nell’arco di sei anni. Quelle pubblicate sono una cinquantina e raccontano di realtà che trovano corrispondenza solo nei racconti dei sopravvissuti ai campi nazisti. «Affermare che si tratti di un olocausto non è un’esagerazione. – dichiara il coordinatore di Medici per i diritti Umani, Alberto Barbieri –. Il significato etimologico rimanda all’assassinio di una persona che viene arsa viva. Ed è proprio quello che ci è stato riferito a proposito di un migrante affetto da scabbia e debilitato dalla malattia. Gli hanno dato fuoco».

Falaka è il nome della tortura prediletta, la vittima viene battuta sotto le piante dei piedi fino a non poter camminare, poi ci sono le scosse con fili elettrici, le ustioni, le umiliazioni sessuali. Tutto questo ha uno scopo: estorcere quanto più denaro possibile alle famiglie de migranti. Gli eritrei sono tra quelli che rendono di più perché le comunità all’estero sono le più coese e riescono a metter insieme le cifre dei riscatti: circa 12mila euro a persona.

La libertà non è tuttavia una garanzia di salvezza, dopo mesi di abusi quando non è più possibile spremergli altri soldi, i migranti vengono stipati su imbarcazioni precarie e spinti in mare. La sola speranza di completare la traversata è già tanto per chi è passato all’inferno. Il più delle volte sono i trafficanti stessi a segnalare alla Guardia costiera libica la partenza degli scafi. Ricordate il duello navale ingaggiato dalla Sea Watch 3 per tentare di recuperare i naufraghi prima dei libici? Non ce la fecero e molti migranti preferirono lasciarsi affogare piuttosto che tornare a Tripoli. Questo accade ogni giorno, anche oggi che gli sbarchi sulle coste siciliane sono quasi a zero, mentre qualcuno osa argomentare sulla paura dei migranti di prendersi il Covid-19. Niente crociere per loro. Il Mediterraneo è senza testimoni, le barche delle “famigerate” Ong sono ferme in porto per le norme sull’emergenza sanitaria. Gli avvistamenti aerei continuano – conferma Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italia – ma nessuno si muove in soccorso dei gommoni in difficoltà, né da Malta, né dall’Italia. 

Il 2 febbraio 2020 l’Italia ha prorogato di altri tre anni il memorandum d’intesa con il governo libico in cui s’impegna a cooperare per il «sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali», anche attraverso il «supporto tecnico e tecnologico» alla Guardia costiera libica. Il ministro degli Esteri Di Maio ha dichiarato pochi giorni fa che i porti sono chiusi, «gli sforzi sono tutti per i nostri concittadini. Ora l’Italia non può». Che è come dire l’emergenza coronavirus cancella l’emergenza umanitaria. Ma non è così che dovrebbe funzionare. Anche perché la fabbrica della tortura in Libia procede a pieno regime.