Infallibile umiltà

Gualtiero Sigismondi

Benedetto XVI, passato dal “paragrafo” della storia al “capitolo” dell’eternità, lascia in eredità alla Chiesa un grande patrimonio di fede. L’assistente generale dell’Ac fa memoria di papa Ratzinger, l’innamorato di Dio

 

«Cristo ha imposto alla morte un limite invalicabile»: questo annuncio pasquale, così formulato, appartiene alla sapienza di Benedetto XVI, teologo e pastore di riconosciuta autorevolezza, in cui tutta la Chiesa ha contemplato «una dolcezza di tratto, una finezza d’intelletto, una purezza di spirito destinata a sopravvivere alla sua esistenza terrena». Non trovo espressione più sintetica di questa, infallibile umiltà, per tracciare il profilo di papa Ratzinger, che ha vissuto con straordinaria intensità e coerenza la vita sacerdotale nei tre gradi, non solo dell’Ordine sacro, ma anche della carità pastorale: folla, pastore, eremita. Folla, perché preso dal popolo della sua terra, l’alta Baviera; pastore che ha saldato in un’alleanza armonica salus animarum e magistero illuminato; eremita che ha continuato a servire la Chiesa, fino alla fine, nel silenzio della preghiera presso il Monastero Mater Ecclesiae, situato entro il “recinto di Pietro”. Egli ha percorso un iter inverso rispetto a quello di alcuni suoi predecessori, come Gregorio magno, prima prefetto di Roma, poi monaco e abate di Sant’Andrea sul Celio, quindi vescovo di Roma. Rinunciando al ministero petrino, Benedetto XVI, ha osservato alla lettera la “regola pastorale” seguita da Giovanni Battista, che ha preparato la via del Signore, lo ha indicato presente nel mondo e, all’arrivo dello Sposo, ha dichiarato: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30).

Alla scuola di Benedetto da Norcia

L’atto di governo di infallibile umiltà della sua rinuncia al ministero petrino, papa Ratzinger l’ha maturato alla scuola di Benedetto da Norcia, il quale nella Regola stabilisce 12 gradi di umiltà. Con serenità di coscienza, esaminata davanti a Dio, e «in piena libertà» è pervenuto alla certezza che le sue forze e l’età avanzata non gli consentivano più di «esercitare in modo adeguato» il servizio di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro. Egli, però, non ha rinunciato a manifestare la volontà, attuandola con amore profondo e totale, di continuare a «servire la santa Chiesa di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera». In questa dichiarazione d’amore, che rivela la sua grandezza d’animo e di dottrina, si sente l’eco della formula di congedo suggerita da Gesù agli apostoli: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Imparare a congedarsi, a farsi da parte senza mettersi in disparte, è segno di carità pastorale, anzi, apostolica, propria di chi «non ha mire di possesso, sente sempre la propria povertà e vede tutto come dono».

Benedetto XVI, passato dal “paragrafo” della storia al “capitolo” dell’eternità, lascia in eredità alla Chiesa un grande patrimonio di fede. «Il suo argomentare la fede – osserva papa Francesco – era compiuto con la devozione dell’uomo che ha abbandonato tutto sé stesso a Dio. Particolare era la sua capacità creativa di saper indagare i vari aspetti del cristianesimo con una fecondità di immagini, di linguaggio e di prospettiva, integrando cuore e ragione, pensiero e affetti, razionalità ed emozione». Benché il campo della ragione e quello della fede siano distinti, egli era consapevole che «l’opzione cristiana è quella più razionale e umana». «Fede e ragione – rilevava Benedetto XVI – sono necessarie e complementari nella ricerca della verità: una ragione debole è incapace di una fede ragionevole». Sebbene la fede raggiunga una profondità che va oltre la ragione, senza mortificarne lo sforzo, tuttavia la fede ha una dimensione razionale che le è essenziale: senza la sua audacia non sarebbe sé stessa. La fede non spegne il lume della ragione ma lo alimenta e lo orienta: la fede è un “valico” per la ragione, la quale, a sua volta, è un “varco” per la fede.

Dio e la fede

Benedetto XVI – si legge nel Rogito per il suo pio Transito – ha posto «al centro del suo pontificato il tema di Dio e della fede, nella continua ricerca del volto del Signore Gesù Cristo e aiutando tutti a conoscerlo». Nel suo testamento spirituale egli raccomanda, con mite fortezza, di conservare la fede cattolica, rivolgendosi prima ai suoi compatrioti e poi a tutti i fedeli affidati al suo servizio, dicendo loro, rispettivamente: «Non lasciatevi distogliere dalla fede»; «Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere!». Consapevole – come si legge nell’enciclica Lumen fidei – che «la fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma», egli non si è mai confinato in una cultura intellettualistica, disincarnata dalla storia degli uomini e del mondo.

È opportuno rileggere, al riguardo, alcuni passaggi dell’omelia tenuta il 31 dicembre 2012, in occasione del Te Deum di ringraziamento. Si tratta di un vero e proprio testamento pastorale, in cui Benedetto XVI richiama l’attenzione sulla priorità della missione di evangelizzare in un contesto culturale che ostacola la fede sia nel suo radicamento personale, sia nella sua presenza sociale. «Proprio per questo – affermava –, occorre impegnarsi ad accentuare la dimensione missionaria della pastorale ordinaria, affinché i credenti, sostenuti dall’Eucaristia domenicale, possano diventare discepoli e testimoni di Cristo. A questa coerenza di vita – aggiungeva – sono chiamati in modo particolare i genitori cristiani, che sono per i loro figli i primi educatori della fede». Oltre a sottolineare che se non si favorisce la nascita di gruppi di famiglie, «nei quali si ascolta la parola di Dio e si condividono esperienze di vita», il processo di evangelizzazione sarà solo una rincorsa affannosa, papa Ratzinger precisava che «l’impegno per una formazione sistematica degli operatori pastorali è una preziosa via che richiede di essere perseguita, per formare laici che sappiano farsi eco del Vangelo in ogni casa e in ogni ambiente».

«Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!». A questa formula di benedizione, tanto paterna quanto fraterna, con cui il Santo Padre Francesco ha concluso l’omelia per le esequie del Papa emerito, mi permetto di accostare una confidenza di don Primo Mazzolari, custodita in un opuscolo, edito nel 1942, dal titolo Anch’io voglio bene al Papa. «Il cuore di Pietro è il cuore che si butta in avanti, che non si risparmia, non pesa, non calcola: il cuore di cui ha bisogno il Signore per la sua Chiesa (...). Cristo glielo prende, lo accende della sua carità e lo inserisce nella pietra, ve lo crocifigge sopra. La Chiesa è in queste due realtà: cuore e pietra. Chi separa l’una dall’altra, commette un orribile sacrilegio (…). Il cuore della Chiesa batte col cuore di Pietro, ama col cuore di Cristo».