CAMMINI / E lì, tra le nubi, all'improvviso spunta un eremo

Carlo Finocchietti

SEGNOWEBESTATE2019/ domenica 14 luglio / CAMMINI

 

E LI', TRA LE NUBI, ALL'IMPROVVISO SPUNTA UN EREMO

 

Caldo. Fatica. Cammino sulla Maiella da ore. E l’eremo non si vede. Avrò sbagliato sentiero? Non c’è campo, maledizione. Il cellulare è desolatamente immobile. Torno indietro? Tanto sono solo e non mi vede nessuno… Avevo chiesto a mia moglie di accompagnarmi. «Non ci penso nemmeno», mi aveva risposto. E sventolando il libro della Dickinson mi aveva detto: «Leggi questa poetessa, piuttosto. Senza mai muoversi dalla sua stanza, ha raccontato straordinari viaggi interiori!». 

Mumble, mumble. Avrà ragione lei? Beh, sai che ti dico, intanto sediamoci, riposiamo qualche minuto e riflettiamo. Mi aveva convinto Le Breton. I camminatori – scriveva – sono persone singolari, che accettano per qualche ora o qualche giorno di uscire dall’automobile per avventurarsi fisicamente nella nudità del mondo. Camminare è una forma di resistenza a un modo di vivere che c’incatena a una sedia e ci fa operare grazie a una serie di protesi come il telefono, l’automobile e il computer. Vero. Anzi, sacrosanto. Al contrario non mi hanno mai convinto quelle idee un po’ bislacche sul nomadismo e sul vagabondaggio.  

Sì, certo, sarà anche romantica l’idea incarnata dal cercatore inquieto alla Hesse. Lui scriveva: «io sono un nomade, non un contadino. Sono un adoratore dell’infedeltà, del mutamento, della fantasia». Suggestivo, in teoria. Ma poi, come lo racconto a mia moglie? Un’idea, quella di Hesse, che fa il paio con quella di Jack Kerouac. Chi non è rimasto affascinato dal suo On the road (“Sulla strada”), magari letto da giovane? L’idea del viaggio come una droga, per allargare la propria percezione del mondo. Il viaggio come un concerto di musica jazz, intessuto di creatività, improvvisazione, poesia. Suggestivo, certo. Però il viaggio cessa così di essere il mezzo per raggiungere una meta e diventa fine a se stesso. Un po’ come il paradosso di Mc Luhan: «il mezzo è il messaggio». Continuo a preferire l’affermazione di Dag Hammarskjöld: «è la meta che giudica del viaggio».

Sento semmai più vicino quell’escursionismo solitario che ti fa uscire dall’anomia e dall’alienazione, alla ricerca del senso. Una sorta di fuga dal mondo, alla ricerca dell’armonia interiore. É il cammino che ricerca l’anima perduta e l’ispirazione. Rousseau ama la passeggiata solitaria perché è il momento in cui la fantasia si sbriglia, la testa resta interamente libera e le idee fluiscono senza resistenza e costrizione: «Tali ore di meditativa solitudine – scriveva – sono le sole della giornata in cui sono pienamente me stesso e mi appartengo senza diversioni, senza ostacoli».

Ma ancor più mi affascina il cammino del pellegrino, dell’uomo di fede. Egli cammina verso Roma, Santiago, Gerusalemme o, più semplicemente, verso un eremo di montagna su un’antica via sacra, sgombrando la sua vita dai condizionamenti dell’esistente per un incontro nuovo con l’Altro, guidato da una stella. Il cammino di Abramo, la cavalcata dei Magi, la strada di Emmaus, i viaggi di San Paolo, la missione degli apostoli sulle vie del mondo. Senza dimenticare i grandi viaggiatori alle radici della cultura europea: Ulisse, Enea, Marco Polo.Il viaggio non può limitarsi al turismo effimero del vedere ma deve nutrirsi di curiosità intellettuale, di ansia e gusto della conoscenza, di comunicazione interculturale; il viaggio ha una dimensione esistenziale che implica l’accettazione matura del mettersi in crisi per costruire attraverso l’incontro con gli altri un uomo nuovo, una vocazione nuova, una grande missione. 

Beh, ora sono rinfrancato. Riprendiamo il cammino. Toh, ecco l’eremo!

* Carlo Finocchietti, camminatore appassionato e curioso, ha esplorato e descritto in diversi volumi intriganti percorsi escursionistici legati alla memoria storica dell’Italia centrale. Per le Paoline ha scritto, con Gianni Di Santo, Sentieri per lo spirito. Trekking per tutti nei luoghi della fede (Milano, 2009).