Cerco storie di pandemia
Preti, vescovi, laici, volontari, infermieri e medici alle prese con la pandemia: il giornalista Luigi Accattoli, decano dei “vaticanisti”, ha raccolto – e sta tuttora raccogliendo – nel suo blog personale storie “vive” di persone che sono morte lasciando un’ultima parola magari in una chat o affidata a un’infermiera. O guariti che hanno sofferto il morso del Covid e ne hanno dato un racconto utile a chi l’ascolta. Tra le tante, anche volti associativi che testimoniano come “la morte non avrà l’ultima parola”
Cerco storie di pandemia portatrici di un elemento testimoniale vivo: ne ho raccolte cinquanta nel mio blog e intendo arrivare a cento e oltre. L’incoraggiamento che ci trasmettono è il dono di questa stagione tribolata e io mi propongo di segnalarlo con l’arte del giornalista che è quella della narrazione dei fatti.
Le mie storie le cerco nei quotidiani e nei periodici, nei socials, nei telegiornali, tra i colleghi giornalisti e tra gli amici. Le chiedo a medici e infermieri. Le chiedo anche a voi che leggete.
Mi interessa ogni storia vera e narrabile. Persone che sono morte lasciando un’ultima parola magari in una chat o affidata a un’infermiera; guariti che hanno sofferto il morso del Covid e ne hanno dato un racconto utile a chi l’ascolta; scelte di volontariato compiute da uomini e donne impegnate nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio, in tante attività confinanti con le varie facce dell’emergenza.
I nostri morti sono tanti: 37.338 nel momento in cui scrivo. Ma poche vicende luttuose legate alla pandemia hanno un contenuto testimoniale narrabile. Magari molte ce l’hanno per i familiari e per quanti li hanno curati: il modo di affrontare la morte e il testamento a esso affidato possono infatti essere comunicati anche con un sorriso, una lacrima, un movimento degli occhi. E qualche storia che si conclude con uno sguardo l’ho pure narrata, ma ho cercato spesso inutilmente un ultimo messaggio inviato con il telefonino, una parola di commiato.
Ci sono eccezioni e sono preziose. Di chi è guarito e poi è ricaduto, e nella fase della guarigione ha detto quello che stava passando.
Don Giuseppe Branchesi, 81 anni, parroco a Macerata, muore il 20 aprile all’ospedale di Civitanova nove giorni dopo aver inviato ai parenti, via cellulare, un testamento che si conclude con questo saluto: «Chiedo perdono a tutti, e tutti perdono»; e ancora: «Grazie a Dio. Grazie a tutti. Benedico tutti».
Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, confida al vescovo che gli telefona: «Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia per condividere quello che vivono molte altre persone». Un altro prete, Orlando Bartolucci di Pesaro, poi deceduto, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, aveva avuto parole analoghe di accettazione della malattia: «Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo, spiritualmente mi sento contento di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente».
Del missionario saveriano Giancarlo Anzanello (85 anni, di Treviso), morto in aprile all’ospedale San Francisco de Asís di Madrid, abbiamo saputo qualcosa dal diario di un prete spagnolo che assisteva i ricoverati: Ignacio Carbajosa, che ha pubblicato una forte memoria di quel suo ministero di misericordia tradotta in italiano dall’editore Itaca con il titolo Testimone privilegiato. Diario di un sacerdote in un ospedale Covid.
Un paio delle mie storie narrano di famiglie che accompagnano una madre e una figlia al cimitero in regime di massima chiusura, con gli altri parenti costretti a seguire il rito della tumulazione dalla finestra. Riporto le parole di un parroco vicentino che racconta d’aver concordato con le agenzie funebri «una sosta del feretro davanti alle case dei parenti». Che tempo questo, nel quale abbiamo visto la sospensione delle messe con il popolo e la chiusura dei cimiteri.
Nelle terapie intensive si muore da soli e non c’è modo di mandare una parola alle famiglie. Oscar Vrtovec (Novara) infine si salva ma nel momento di maggiore spavento chiede a un’infermiera di portare quella parola a moglie e figli: «Dite loro che gli ho sempre voluto bene». Messaggi simili hanno mandato – prima di morire – altri due personaggi delle mie storie: un marito a una moglie e una moglie a un marito. Ed è senza la morte di nessuno una terza storia nella quale il marito si fa ricoverare in una casa di riposo per assistere la moglie e ambedue finiscono in un reparto covid e ne escono salvi.
Tra i guariti c’è lo scrittore napoletano Marco Perillo, 37 anni, che ha narrato la sua partita a scacchi con la morte nel profilo facebook il 16 ottobre: «Sento il dovere di dire grazie a tutti i medici e agli infermieri del Cotugno per la loro dedizione. Grazie al Signore».
Perillo come tanti altri non sa dove abbia contratto il virus, Sergio Accardi invece ne è sicuro: 61 anni, medico di base a Zogno dal 1997, il suo duello di quattro mesi con la morte l’attribuisce al fatto d’aver continuato – a pandemia inoltrata – a visitare in ambulatorio e a domicilio: «Non volevo abbandonare i miei pazienti». Ed è appunto la solidarietà che ha portato alla morte tanti medici di base.
Tra i guariti i più narrano d’aver visto in faccia la morte e uno confessa di aver sperato di “varcare la soglia”. Roberto Timpano, 50 anni, di Lecco, racconta invece di «non avere mai avuto percezione della terribile gravità della mia condizione: l’ho realizzata dopo e mi sono anche accorto che c’era un esercito di gente che pregava per me».
Don Franco Amati, 70 anni, parroco milanese, si sente «vivo per miracolo» e narra ai parrocchiani, per lettera, poco dopo la Pasqua, la sua discesa agli inferi e la lenta «risalita tra i vivi».
Ho raccolto altre narrazioni simili di cinque sacerdoti, di una decina di laici, di tre vescovi: Antonio Napolioni (Cremona), Derio Olivero (Pinerolo), Calogero Peri (Caltagirone).
Il vescovo Napolioni così parla in una lettera a un suo prete morto poco dopo che lui – il vescovo – era uscito dall’ospedale: «Scrivo per dirti quello che l’isolamento ci impedisce di dire ai nostri cari, in questa disumana maniera di morire». “Disumana” detto da un vescovo è un punto e basta.
Più numerose d’ogni altro filone sono le storie del volontariato.
Michela Fanti (22 anni, di Treviso) appena laureata infermiera e già disponendo di altro lavoro si offre per assistere i malati di Covid. Marta Ribul, volontaria internazionale bloccata in partenza per il Kenya, va infermiera all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dove compie 27 anni nel pieno dell’emergenza.
Abukar Aweis Mohamed è un infermiere somalo cittadino italiano da vent’anni: lascia a Signa, Firenze, la famiglia e va in soccorso dei colleghi delle terapie intensive della Val Camonica.
Tanti per impulso di solidarietà tornano a fare il medico o l’infermiere essendo in pensione, o avendo lasciato da tempo quel lavoro: chi era diventato scrittore, chi vignaiolo, chi si era fatto prete, o frate, o suora. Di storie così ne ho raccolte una decina.
Il volontariato ha trovato in questa ardua stagione impensate manifestazioni. Leonardo Castellazzi, 52 anni, di Codogno, medico rianimatore, fa l’esperienza della malattia e poi per due mesi, da casa, risultando positivo a 12 tamponi, passa i pomeriggi al telefono con i parenti dei malati ricoverati in terapia intensiva. Accompagna in questo modo il lavoro dei colleghi e svolge – da volontario – il ruolo prezioso del collegamento tra i malati e le famiglie.
Ogni tragedia è sempre anche commedia e questa doppiezza dell’umano l’abbiamo avvertita persino nei momenti più gravi della pandemia: due delle mie storie narrano di pazienti in terapia intensiva che al momento del risveglio, vedendo intorno a sé persone scafandrate, hanno creduto d’essere rapiti e uno dei due ha subito fatto agli infermieri imperdibili proposte di riscatto: «Vi do un milione di euro».
Questi racconti li ho per ora sistemati sotto la dicitura Storie di pandemia nella pagina del mio blog intitolata Cerco fatti di Vangelo.
Le cinquanta storie le puoi consultare a questo link: http://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fatti-di-vangelo/22-storie-di-pandemia/.
Roma, 27 ottobre 2020