Credere in un tempo di stelle

Alberto Galimberti

Fervono ormai i preparativi di una veglia unica: sfilano istanti cruciali simili a rivelazioni su noi stessi.

Una catena di azioni scorta la vigilia del miracolo.  

Prima, asciugare le lacrime, sfoderando il sorriso migliore.

Poi, accordare fiducia a una crepa stagliata su un fondo di tenebre, pertugio attraverso il quale fiottano zampilli di luce.

Quindi, rammentare che siamo schegge di meraviglia, promesse da esaudire, capolavori da portare a compimento.

Infine, sollevare lo sguardo, spingere la vista all’insù - occhi sgranati, labbra schiuse, capo inarcato - e contemplare lo sfavillio delle stelle.

È possibile, ha senso e aiuta.

La notte stellata calerà sul mondo: ammantata di fulgido splendore, puntuale e impeccabile come da millenni a questa parte, fastosa e solenne nella sua veste regale.

Avremo il coraggio di sostenerne la sguardo?

 

Sollevare lo sguardo, spingere la vista all’insù - occhi sgranati, labbra schiuse, capo inarcato - e contemplare lo sfavillio delle stelle.

Possibile? Dopo la pandemia, le morti, la sofferenza. 

Ha senso? Dopo essere scivolati in una rabbrividente tragedia globale.

Conviene? Dopo la paura, l’angoscia, l’inquietudine.

Aiuta? All’indomani di un flagello di proporzioni catastrofiche e cieca violenza.

Di primo acchito, affiora una risposta risoluta: no.

Non è possibile, non ha senso, non aiuta. 

Il tempo senza stelle

Nessuna poesia, vaticinava Adorno, avrebbe riscattato la civiltà occidentale inabissatasi nell’inferno di Auschwitz. Profezia che risuona nel silenzio di domande orfane di risposte, nello sgretolarsi di granitiche certezze, all’uscita di un tempo senza stelle, derubato di un qualsivoglia frammento di felicità.

Il tempo senza stelle ha spento il brillio della speranza sulla terra, teatro votato alla desolazione. È stato incalzato dall’imperversare di un nemico invisibile, capace di mietere vite a migliaia, recidere sogni in procinto di sbocciare, precipitare cuori nell’oscurità livida del dolore più atroce.

Il virus è entrato subdolo, virulento e letale in corpi, polmoni e pensieri. Insieme all’ululare delle ambulanze; allo stillicidio dei bollettini; al terrore acquartierato sull’uscio di casa; all’addio straziante senza la pietà di un saluto, il calore di mani intrecciate, il cordoglio religioso e civile di un commiato pubblico a testimonianza dell’impronta lasciata in quel lembo di comunità.

I governi hanno vacillato, l’economia è caduta in depressione, le borse sono crollate. Là dove le democrazie vantano una longeva e robusta storia di diritti e libertà, la politica ha annaspato, blindando la socialità dei cittadini e chiedendo loro un supplemento di responsabilità. Mentre, alle latitudini in cui abuso e terrore legittimano il potere, la politica ha strumentalizzato l’emergenza sanitaria e impresso una torsione autoritaria: negando il corso della pandemia e tacendo la verità sulle vittime, esautorando i parlamenti e censurando la stampa.

Gli ultimi - infermieri, trasportatori, insegnanti, braccianti, cassiere, magazzinieri, librai - sono diventati i primi: nell’eccezionalità cantati alla stregua di eroi omerici, quando di norma sono derisi e dimenticati.

Un uomo, un gigante, vestito di bianco, in una San Pietro deserta e crepuscolare, ha scandito una verità scolpita nella pietra, ma rimossa per comodità e sventatezza: “Nessuno si salva da solo”. Siamo un'unica comunità di destino, ha tuonato Papa Francesco, scuotendo dal torpore l’anima di una società immemore, pervasa di narcisismo e individualismo ipertrofici: tanto ingorda di io quanto digiuna di noi.

Nessuno si salva da solo

Nessuno si salva da solo: un monito a guardare le stelle, trascorso l’imbrunire di un 10 agosto spartiacque della storia. 

È possibile? Sì. 

Come? Slegando il nodo dell’emozione, reggendo alla vertigine, rilasciando parole a lungo soffocate. Miriadi di luci a punteggiare la volta celeste, candide fessure incastonate in un soffitto nero, sono il loro approdo. Noi accoccolati lì sotto: il cuore in subbuglio, i sogni assiepati subito intorno, la presa in custodia dei sentimenti autentici.

Immaginando di ordire la trama dei giorni, riscrivere la partitura di un divenire incompiuto, bisognoso della nostra firma: siamo complici della creazione, nati per completarla.

Accogliendo la commozione sgorgata dalla nostalgia di chi non c’è più: rivolo di umanità che riga il viso, impasta il respiro, mantiene viva la memoria.

Ringraziando per il dono della vita che riprende a irrorare il mondo.

Dal fondo della disperazione, la speranza

Ha senso rimirare le stelle? Sì. Benché adesso appaia un movimento solcato da mille contraddizioni: per mesi, siamo stati esposti all’imponderabile, invasi da un senso di impotenza, sgomenti davanti alla soglia dell’indicibile e torturati dalla preoccupazione per il domani.

Ha senso contemplare le stelle, gesto minuto che racchiude il mondo, perché la speranza, virtù teologale, non è il mero surrogato di un ottimismo pubblicitario e consumistico. Piuttosto, per dirla con Paolo Rumiz, la speranza nasce dal fondo della disperazione: rovescia la rassegnazione in fiducia, il vuoto in pienezza, il male in bene.

Le stelle, ostinatamente

Da sempre le stelle suscitano fascino e annunciano epifanie.

Ammirare un velo blu ricamato di brillanti, conviene.

Essere percorsi da un fremito e avvolti in un mistero che affonda nei secoli, aiuta.

È vero: credere ora nella plausibilità di un tempo di stelle sembra un atto di fede stridente, combattuti come siamo per via di una scelta inappellabile, all’apparenza.

Vite stroncate, desideri frantumati, sofferenze lancinanti avvicendate con esistenze rinate, slanci rifioriti, gioie rinnovate.

Tuttavia, la tensione fra vita e morte è insopprimibile, come ha scritto Chiara Giaccardi, nel pieno infuriare del virus: espellere dall’orizzonte la seconda equivarrebbe a svuotare di significato la prima.

Dopo i paesaggi distopici di città irriconoscibili, strade deserte, piazze mute, scuole e oratori evacuati, esistenze blindate, la natura inaccessibile là fuori, oltre finestre e balconi; credere, abitandola, nella vitalità entusiasta di luoghi pubblici, aule, cortili, ristoranti, vicoli, centri storici, campagne tornati brulicanti di persone e parole. 

Credere, visitandola, nella bellezza struggente della quiete ristoratrice di una passeggiata in montagna; del frusciare carezzevole del vento fra le chiome; dei raggi spioventi del sole che allungano ombre sul sentiero; del gorgogliare tumultuoso dei torrenti; della distesa increspata del mare e del cullante sciabordio delle onde infrante sugli scogli; della parete di pioggia che scende copiosa, innaffia il terreno e tamburella sui tetti; dell’azzurro smagliante del cielo, del rosa morbido dell’alba; del biondeggiare lussureggiante dei campi; delle lingue rosso fuoco che infiammano il tramonto screziandolo di striature dorate.

Lo stupore che alberga la veglia

Fervono ormai i preparativi di una veglia unica: sfilano istanti cruciali simili a rivelazioni su noi stessi.

Una catena di azioni scorta la vigilia del miracolo.  

Prima, asciugare le lacrime, sfoderando il sorriso migliore.

Poi, accordare fiducia a una crepa stagliata su un fondo di tenebre, pertugio attraverso il quale fiottano zampilli di luce.

Quindi, rammentare che siamo schegge di meraviglia, promesse da esaudire, capolavori da portare a compimento.

Infine, sollevare lo sguardo, spingere la vista all’insù - occhi sgranati, labbra schiuse, capo inarcato - e contemplare lo sfavillio delle stelle.

È possibile, ha senso e aiuta.

La notte stellata calerà sul mondo: ammantata di fulgido splendore, puntuale e impeccabile come da millenni a questa parte, fastosa e solenne nella sua veste regale.

Avremo il coraggio di sostenerne la sguardo?