Dopo il voto, rebus Europa. Ma resiste una maggioranza pro-Ue
Sarebbe davvero interessante potersi intrufolare, martedì 28 maggio, alla cena dei capi di Stato e di governo, convocata dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk per “valutare i risultati delle elezioni” dell’Europarlamento e “iniziare il processo di nomina dei capi delle istituzioni Ue”, ovvero i presidenti della Commissione, dello stesso Consiglio e della Bce. Di regola il summit si svolge a porte chiuse e le conclusioni cui giungono i leader dei Paesi membri sono comunicate con documenti ufficiali e conferenze stampa piuttosto ovattate. Ma c’è da immaginare che questa volta voleranno gli stracci, perché la politica europea, alla luce della tornata del 23-26 maggio, si è ulteriormente polarizzata, fra “eurofili” (saranno ancora in maggioranza a Strasburgo) ed “eurofobi” (in significativo aumento). Stabilire, in queste condizioni, chi dovrà tirare le fila dell’Unione nei prossimi cinque anni sarà un rebus.
Affluenza in aumento. Alcune osservazioni possono essere condotte all’indomani della gigantesca prova di democrazia svoltasi in Europa a partire dall’affluenza alle urne. Un elettore su due ha espresso la sua preferenza, invertendo una tendenza in calo patologico dal 1979 (prima elezione a suffragio universale dell’Eurocamera): nel 2014 aveva votato il 42,6% degli aventi diritto, oggi siamo al 50,9%. L’Italia, pur sopra alla media Ue, esce col segno negativo, con un’affluenza ai seggi attorno al 56%, due punti in meno sul 2014. Balzo in avanti dei votanti in Polonia (+20%), mentre tra i meno affezionati alle elezioni Ue si confermano diversi Paesi del centro-est: Slovenia, Croazia, Bulgaria, Repubblica ceca, Slovacchia, i tre baltici. Qui sono arrivati i fondi comunitari, tarda invece a palesarsi – a quanto pare – lo “spirito” dell’Unione.
Il prossimo emiciclo. In queste ore al Parlamento europeo continuano ad affluire i dati delle elezioni svoltesi nei 28 Stati membri. Mancano al momento taluni risultati definitivi ma, stando alle ultime proiezioni sulla composizione del nuovo emiciclo diffuse qui a Bruxelles, si conferma una maggioranza di partiti pro Ue, e una rafforzata ma minoritaria presenza di deputati “euroscettici”. Su 751 seggi totali, i Popolari (l’assegnazione dei seggi è dunque da definire con maggior precisione) si attestano a 180 deputati, i Socialisti e democratici a 146; le due storiche forze politiche dell’assemblea escono assai “dimagrite” da queste elezioni.
Salgono invece a 109 seggi i Liberaldemocratici, forti del buon numero di deputati della coalizione francese che si ispira al presidente Macron. Avanzata significativa dei Verdi, 69 seggi, con forte apporto di tedeschi, francesi e britannici. Sommando le forze – pur diverse tra loro – considerate “europeiste” (popolari, socialdemocratici, liberali ed ecologisti) si arriva a 504 seggi. I Conservatori si fermano a 59 (in maggioranza polacchi), al gruppo Enf (con la Lega e Le Pen) vanno 58 seggi, all’Efdd (con i pentastellati e i Brexiteers di Farage) 54. I deputati della Sinistra unitaria scendono a 39; infine 37 i seggi di partiti o deputati non ancora affiliati.
Puzzle politico. Se poi osserviamo i dati nazionali, l’Unione europea si conferma come un vero e proprio pout pourri politico. Parliamo di votazioni “europee” (fra l’altro con 28 sistemi elettorali differenti), ma in realtà si è di fronte a una sommatoria di elezioni “nazionali”, nelle quali prevalgono ancora una volta trend, elementi e fenomeni di politica interna, in assenza di una vera opinione pubblica continentale, di partiti e di media transnazionali, e soprattutto in carenza di un vero e diffuso senso della “cittadinanza europea”. Così, sulla base dei risultati nazionali, a Bruxelles si parla – a torto o a ragione – di Italia e Ungheria come dei due Paesi più euroscettici dell’Unione. I successi di Salvini, Orban, e della Le Pen in Francia, interrogano l’Europa intera.
Paese per Paese. Questa Europa, più che mai “unita nella diversità”, vede in Germania al primo posto, pur se in discesa di consensi, la Cdu/Csu della cancelliera uscente Angela Merkel (28,9%), seguita dall’exploit dei Verdi (20,5), dai ridotti Socialdemocratici (15,8); il partito no-Europa Alternative für Deutschland non va oltre l’11%.
La star francese di queste elezioni è di nuovo Marine Le Pen che, con il suo Rassemblement National, giunge in prima posizione (23,1%), scavalcando la Coalizione nazionale che si rifà al presidente Emmanuel Macron (22,4%); bene gli “Ecolò”, terzi al 13,4%. In Polonia tiene il partito di governo, Diritto e giustizia, euroscettico, con il 45,6%, a parecchi punti di distanza dall’antagonista Coalizione europea (38,3). Vittoria in Spagna per il premier socialista Pedro Sanchez: sul suo partito confluisce il 32,8% delle preferenze; regge il Partito popolare (20,1), così come i Ciudadanos (centristi; 12,2) e Podemos (sinistra; 10,1); all’ultradestra euro-contraria di Vox solo il 6,2% dei voti. E poi c’è il “caso inglese”: il Paese non è riuscito a organizzarsi per tempo e lasciare – come promesso – l’Ue prima di questa elezione, votando, paradossalmente, per eleggere i deputati britannici a Strasburgo. Così ha avuto buon gioco il leader breexiter Nigel Farage, che porta in cima alla politica isolana il suo Brexit Party (31,7%), inseguito a lunga distanza dai Liberaldemocratici pro-Europa (18,6); puniti dai connazionali sia il Labour (14,1%) che i Tories (8,7) della premier dimissionaria Theresa May. Bene i Verdi inglesi (11,1). In Ungheria, come accennato, il discusso premier Viktor Orban, nazionalista antieuropeo pur facente parte della famiglia Popolare, raggiunge il 52,3%: praticamente non ha rivali nel suo Paese.
* corrispondente da Bruxelles per il Sir e direttore di Segno nel Mondo (articolo pubblicato per il Sir)