«La pastorale non è fatta di inseguimenti»

Maria Teresa Antognazza con Michele Falabretti

«Si fa fatica a comprendere l’auspicio del Papa per una “Chiesa in uscita”. Qualcuno ha pensato: usciamo “fuori” a prendere i giovani per riportarli “dentro”. In realtà, la vocazione della Chiesa di oggi è uscire per abitare il mondo da cristiani mettendo al centro la cura, la condivisione, la fraternità prima che l’istruzione religiosa». Il direttore del Servizio nazionale della Pastorale giovanile della Cei spiega chi si aspetta di incontrare a Lisbona

 

«Quella che celebriamo in questo 2023 è certamente una Giornata mondiale della gioventù epocale: per la Chiesa almeno, è il primo evento internazionale dopo la pandemia. La grande occasione per ragazzi e ragazzi di fare un “viaggio” insieme, ritrovando il gusto della comunità e della bellezza delle relazioni».

Sono i giovani che don Michele Falabretti, 55 anni, bergamasco, direttore del Servizio nazionale della Pastorale giovanile della Cei, aspetta di incontrare a Lisbona. Solo gli italiani saranno sessantamila e, insieme a ragazze e ragazzi provenienti da ogni parte del mondo, porteranno alla Chiesa le loro domande, i loro sogni, le loro richieste. 

 

Ma chi sono davvero?

Sono certamente ragazzi diversi dal passato: durante gli anni più importanti della loro crescita, in una stagione delicatissima della propria esistenza hanno perso un pezzo di vita, che nessuno potrà restituire loro. Ricorderanno la loro adolescenza come il tempo delle chiusure e del distanziamento. Hanno avvertito, durante la pandemia, la spinta fortissima a lavorare, a stare insieme, il bisogno di tornare a incontrarsi, di fare comunità. Una “retorica” dell’interdipendenza, che li ha però subito abbandonati una volta finito il lockdown: si sono nuovamente chiusi in sé stessi e si sono isolati. Avvertiamo i segni di questo disagio profondo nei fatti di cronaca, nel modo spregiudicato di usare la tecnologia che li porta a vivere l’esistenza come un videogioco. Provano esperienze frenetiche ma del tutto dematerializzate. Chiediamoci, ad esempio, che esperienza del corpo riescono a maturare. La Gmg li coglie in questo tratto di strada e si offre loro come occasione straordinaria di un viaggio da fare insieme, gli uni accanto agli altri. Se la vivremo bene, noi con loro, sarà l’occasione per riportare ragazze e ragazzi dentro una relazione molto forte, che è la cosa più difficile da costruire dopo il tempo della pandemia.

Dunque, una sfida anche per gli adulti, per gli educatori dei giovani, per chi si appresta a fare loro delle proposte pastorali. Che spunti arrivano su questo versante dalla convocazione di Lisbona?

Dobbiamo tenere gli occhi bene aperti e aiutarli ad andare in profondità. I giovani sono portatori di grandi passioni, di sogni, che a volte restano un po’ in superficie: dobbiamo provocarli e sfidarli, per riconoscere le contraddizioni di certi comportamenti che vanno contro gli stessi ideali che proclamano. Pensiamo anche solo all’appassionata difesa del pianeta; cosa sacrosanta, ma poi non la si mette in relazione con le conseguenze di certi consumi e comportamenti: abitanti instancabili di TikTok, ad esempio, non riconoscono che i social sono una delle maggiori fonti di inquinamento del pianeta per la massiccia produzione di Co2.

Sentiamo tutti la fatica di consegnare il Vangelo alle nuove generazioni, e di indicare i percorsi più adatti per generare alla fede. È solo una questione di linguaggi o c’è dell’altro?

Non è assolutamente solo una questione di linguaggio o di parole con cui dire la fede. Il Concilio Vaticano II su questo è stato profetico, segnalando che non c’è solo la dimensione dell’intelligenza, della conoscenza dei contenuti della fede e del Vangelo. Perché, ci vuole senz’altro l’ascolto della Parola di Dio, ma deve passare attraverso l’ascolto dalla coscienza e dalla libertà personale. È il tema della storicità della fede, che il Concilio ha riconosciuto nella Dei verbum. La fede non si dà perché Dio squarcia il cielo e ci manda le istruzioni per l’uso, ma perché Dio squarcia il cielo e scende, vive in mezzo agli uomini, viene in un contesto storico ben preciso. Questo vuol dire che la fede va cercata, capita, interpretata, studiata, pensata, che deve passare attraverso la propria storia personale e le sue dinamiche. In questo senso, puntare sul catechismo per portare i giovani alla fede non ha nessun senso. Il Vangelo va vissuto. Dobbiamo mostrare la differenza tra vivere secondo il Vangelo oppure no. Che cosa significa per la mia vita, ad esempio, che il Vangelo mi dice di andare in croce? Prima di essere spiegato, il Vangelo va vissuto e mostrato con la vita. L’istanza più urgente a cui tendere come Chiesa è quella della testimonianza.

Questo provoca molto la vita della Chiesa e delle comunità credenti. Parrocchie, associazioni, gruppi possono essere luoghi buoni e favorevoli per suscitare e accompagnare i giovani in questa scoperta?

È certamente una bella provocazione. Il luogo di destinazione del Vangelo è la vita di ciascuno, la sua storia, la concretezza della vita. Quello che dobbiamo sapere offrire, quindi, sono esperienze di vita di comunità, esperienze educative forti. Che siano ritiri, vacanze comunitarie, attività di gruppo, la stessa Gmg… occorre che poi queste esperienze siano rilette come palestra di vita e diventino forma dei rapporti quotidiani. Dobbiamo costruire luoghi che abbiano una verità, che deve diventare quotidianità, offrire esperienze “dure”, capaci di avere un impatto e plasmare il carattere e i comportamenti.

Che immagine di Chiesa emerge dunque?

Se la Chiesa vuole solo costruire se stessa, muore su se stessa. Deve invece dare aria, mettersi a servizio delle persone, non chiedere alle persone di mettersi al suo servizio e servirsi di esse. Non deve invitare a “entrare” in chiesa, ma incontrare la vita degli altri e rendere un servizio alle persone. Non possiamo restare fermi a una pastorale fatta di inseguimenti. Ancora adesso si fa fatica a comprendere l’auspicio del Papa per una “Chiesa in uscita”. Qualcuno ha pensato: usciamo “fuori” a prendere i giovani per riportarli “dentro”. In realtà, la vocazione della Chiesa di oggi è uscire per abitare il mondo da cristiani mettendo al centro la cura, la condivisione, la fraternità prima e più che l’istruzione religiosa. Oggi, ripeto, bisogna recuperare e costruire un contesto di comunità e di relazioni che siano più umane di quelle che il mondo offre.

Tornando ai giovani che incontrerà alla Gmg: che cosa chiedono alla Chiesa?

Dobbiamo sempre partire dalle istanze dell’uomo di oggi, se vogliamo esserne collaboratori, dobbiamo prendere seriamente in considerazione la vita, la situazione degli altri senza un atteggiamento giudicante. La vita dell’altro, la cultura e il pensiero degli uomini di oggi possono contrastare fortemente con il Vangelo, ma noi dobbiamo accettare la sfida, dove il primo atteggiamento non è quello di chi giudica un certo modo di pensare. Questo i giovani ce lo dicono con molta forza. Non è, neanche, una questione di tecniche da trovare. Per certi versi abbiamo vissuto molto nell’illusione che fosse sufficiente spiegarsi, comunicare bene: se mi spiego bene gli altri mi crederanno. Bisogna avere fiducia nella forza del Vangelo, io ne sono convinto, ma ciò non significa pensare a un meccanismo automatico. Credo invece che, se davvero vogliamo essere collaboratori della gioia degli uomini di oggi, e dei giovani in particolare, dobbiamo capire che, ad esempio, l’istanza fondamentale è essere più credibili. Paradossalmente non dobbiamo convertire l’altro, ma convertire noi stessi».