I giovani? Vanno ascoltati
Portano qualcosa di nuovo, qualcosa che spiazza. E quando questo nuovo viene autenticamente riconosciuto, i giovani possono cambiare il mondo. Un sociologo ci aiuta a capire come e perché, della Generazione Gmg, ne abbiamo molto bisogno
Sono quasi sempre invisibili, spariti – e non da ieri – dall’agenda della politica e dell’informazione, buoni solo per acchiappare qualche consenso in campagna elettorale o per alimentare la narrazione sui tempi bui e la decadenza dovuta allo strapotere dei social. Fino a quando non votano o non disturbano i giovani non esistono, non fanno notizia, peraltro sono anche pochi, in costante diminuzione: all’epoca del miracolo economico del secondo dopoguerra gli under 30 erano oltre la metà della popolazione italiana, ora sono il 27%, il valore più basso in Europa. Pochi e non proprio in salute, se pensiamo ai dati emersi da La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2023 curato dall’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi superiori con il sostegno di Fondazione Cariplo e in collaborazione con Ipsos e pubblicato da Il Mulino pochi giorni fa. A preoccupare sono le percentuali di Neet (Not in Education employment or training), ovvero di giovani che non studiano e non lavorano, che si attestano sul 15% nella fascia 15-24 anni e superano il 25% nella fascia 25-34, restando al comando della classifica europea, ma anche il peggioramento a causa della pandemia della condizione psicologica ed emotiva, che configura un vero e proprio problema di salute pubblica a cui si continua a fornire una risposta non adeguata; per non parlare dei numeri che riguardano l’occupazione: la maggior parte dei 900 mila posti di lavoro persi nel 2021 per effetto del Covid riguardava i 20-30enni, così come la quantità di dimissioni registrate l’anno successivo.
Eppure dietro grafici e tabelle c’è molto altro e ne abbiamo parlato con Alessandro Rosina, Ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha curato il Rapporto.
Chi sono i giovani d’oggi, quelli che avete incontrato per stilare il Rapporto?
Sono persone che vorrebbero contare, vorrebbero scegliere, che hanno desiderio di protagonismo, di essere visibili e di essere riconosciute come soggetti, di esserci dove le cose accadono e di farle accadere con la loro presenza. Sono alla ricerca di contesti che diano fiducia, c’è proprio questa voglia di trovarsi a fare esperienze positive, piacevoli e che aiutino anche a sperimentarsi come soggetti che creano valore, che generano qualcosa che grazie a loro produce risultati di rilievo. Per questo, come avverrà in agosto in occasione della Giornata mondiale della Gioventù, si spostano, si mobilitano con la loro presenza, perché hanno timore di rimanere fuori, di restare ai margini, di essere la parte perdente: oscillano tra il timore verso un futuro che li esclude e un mondo che cambia con loro.
I tanti italiani in partenza per Lisbona corrispondono a questo profilo o si differenziano in qualche modo a causa dell’appartenenza a un’esperienza di fede?
La mia impressione è che almeno in partenza contino di meno le appartenenze: sempre meno si fa qualcosa perché si appartiene; si parte perché si sente che lì si può fare qualcosa di positivo, è poi l’esperienza che vivi che ti permette o meno di rafforzare l’appartenenza.
Le modalità di partecipazione si sono ribaltate: non partono dall’appartenenza, ma l’appartenenza può essere un punto di arrivo. L’esperienza rimane se è stata un’esperienza di senso e di valore, trasformativa, se ti ha cambiato dentro, se ti ha reso capace di essere soggetto attivo nel generare valore: è questo che dà fiducia in sé stessi. Non c’è un’ideologia che scatena la scelta: è la persona che sceglie di esporsi a quell’esperienza. Quando scatta qualcosa, è perché lì si trovano le condizioni di essere riconosciuto come soggetto di valore.
È uno schema che non vale solo per la partecipazione alla Giornata mondiale della Gioventù.
No, infatti. Vale anche per le aziende ad esempio: i giovani se ne vanno dalle aziende che non li valorizzano, fanno sempre meno quello che gli altri vorrebbero, fuggono da chi vuole decidere per loro. C’è una diffidenza di partenza ma anche voglia di capire. Dire ai giovani “questo è bene per te” non funziona. Troppi adulti partono da quello che loro pensano che ai giovani serva; i giovani cercano invece fortemente contesti in cui possano sperimentarsi, anche sbagliando.
Bisogna avere pazienza, bisogna aspettarli.
Come accorciare le distanze, come rammendare relazioni piene di strappi?
Occorre costruire una relazione autentica e non strumentale con loro, che vada oltre le nostre aspettative. Tutti noi abbiamo ben presente cosa vorremmo da loro, ma è necessario ascoltarli. Per cogliere quello che hanno di interessante e quello che di diverso portano: qualcosa di nuovo, qualcosa che spiazza. Quando questo nuovo viene autenticamente riconosciuto, i giovani possono cambiare il mondo. Anche perché i giovani non vengono semplicemente per sostituire le generazioni precedenti: nel campo lavorativo, ad esempio, la chiamata che li ingaggia, che li fa restare, non è quella di sostituire un lavoratore in pensione o coprire una mansione scoperta, ma quella che consente loro di generare valore con la novità che rappresentano.
Il ruolo delle giovani generazioni è quello di cercare spazi, mentre il nostro compito di adulti è quello di superare una lettura stereotipata della loro condizione e esercitare una lettura autentica verso ciò di cui hanno bisogno, offrendo loro un contesto stimolante, supportivo e motivante, in cui abbiano la possibilità di sperimentare, ma anche di sbagliare; se manca questo, se non capiamo che i giovani non sono come noi li vorremmo, l’energia positiva di cui sono portatori rimane compressa e sfocia nella frustrazione e nella depressione.
Sguardo autentico, dunque, e credibilità nell’offrire un sostegno non funzionale ma continuativo, che li aiuti ad avere nuovi punti di riferimento.
Cosa possono e devono fare le istituzioni e le agenzie educative?
Devono investire nella formazione e rafforzare le politiche di orientamento: c’è nei giovani una forte domanda di essere orientati rispetto alla loro progettualità. Dobbiamo far sentire loro che sono la nostra risorsa principale, mentre la percezione che hanno oggi è quella di non essere un bene comune: l’unico aiuto vero che ricevono è quello dei genitori, con il rischio di ritrovarsi un destino segnato, mentre è un nostro preciso dovere mettere in campo un percorso formativo che sin dai primi mesi di vita consenta di ridurre le disuguaglianze. I ragazzi e le ragazze abbandonano la scuola e rinunciano a rivolgersi ai centri per l’impiego, perché non trovano persone in grado di proporre loro un’esperienza attrattiva che sia anche trasformativa. La sfida che abbiamo davanti è quella di accettare la scommessa di mettersi in gioco con loro.