GRANO / E se un giorno imparassimo a condividere il pane...

Paola Springhetti

SEGNOWEBESTATE2019 / domenica 28 luglio / GRANO

 

E SE UN GIORNO IMPARASSIMO A CONDIVIDERE IL PANE...

 

Era giugno e con un gruppetto di amici camminavamo da La Verna verso l’Umbria, lungo il cammino di Francesco. È inutile provare a descrivere la morbidezza delle colline toscane, il gusto delle ciliegie rubate agli alberi selvatici lungo la strada, lo spettacolo delle ginestre ancora in piena fioritura sui declivi. Ma la cosa che più mi ha entusiasmata sono stati i campi di grano maturo, con il loro oro chiazzato del rosso dei papaveri: erano anni che non ci passavo in mezzo, al massimo li vedevo scappare via mentre passavo veloce in autostrada.

Quei campi e quei papaveri mi hanno ricordato un portico della mia infanzia. Avevo uno zio, in Trentino, che si era costruito una villa in mezzo ai prati. Un lato, per tutta la lunghezza, era ombrato da un largo portico, per la maggior parte occupato da un gigantesco tavolo. Lì si riuniva la famiglia, normalmente sparsa per diverse città e paesi. Fratelli e sorelle, mogli e mariti, figli e nipoti… Eravamo tra i 20 e i 30, attorno a quel tavolo. Mamme e zie cucinavano tutto il giorno, per sfamarci, gli uomini giocavano a carte e noi correvamo in giro, tormentando il cane dello zio.

Ma veniva quel momento, in cui eravamo tutti a tavola, mangiavamo lo stesso cibo, e attorno al cibo si stemperavano le tensioni familiari, le filosofie di vita, le distanze d’età e perfino le differenze di accento dialettale. Condividendo il cibo si ritrovavano l’allegria e la spensieratezza e i nostri piedi bambini resistevano sotto il tavolo molto più di quanto non succedesse normalmente a casa.

Dunque guardavo l’oro e il rosso dei campi e pensavo al pane e all’allegria, ma anche all’ultima cena fatta con un gruppo di amici, a casa nostra. C’era uno a dieta per dimagrire, due vegani, uno con problemi di pressione per cui niente sale, uno che proprio le verdure non le sopporta, uno che la macedonia non la mangia a fine pasto, ma solo a merenda, perché così si deve fare con la frutta, uno che non mangia i carboidrati la sera, uno celiaco che, poveraccio, era l’unico che non poteva farci niente. In pratica, in quella cena abbiamo condiviso ben poco.

Poi possiamo dirci che quel che conta è stare insieme, ma non è vero, o non del tutto. Una volta, se andavi a casa di uno che sapeva cucinare bene il pesce, mangiavi pesce. Se la sua tradizione era il cous cous, mangiavi cous cous. Condividevi quello che aveva da offrirti. 

In Italia ci sono almeno 250 tipi di pane riconosciuti come tradizionali, ma probabilmente quelli che si trovano in commercio, o che si fanno in casa, sono migliaia. Il pane è parte della nostra identità: ogni comunità ha sempre avuto il suo, che era più buono di tutti gli altri –  e lo ha difeso nel tempo (a proposito: sotto il portico della mia infanzia il pane era di segale). Ma quando arrivava il momento lo si condivideva: chi ospitava era orgoglioso di offrire il proprio cibo, cucinato con cura, e chi era ospitato godeva nell’assaggiare il cibo che gli era proposto. E così ci si sentiva parte di un tutto, un tutto plurale e proprio per questo accogliente.

Questa impossibilità di condividere il pane, oggi, va al di là della tavola. Ognuno di noi ha il proprio menù esistenziale, ideologico, culturale… Ma comunque individuale, tanto che gli altri non sono disposti a spezzarlo con noi. Né noi a condividere quello degli altri.

Quel grano dorato che mi emozionava nei campi, non diventerà più il centro della mensa che unisce; quei papaveri rossi non riescono più a simboleggiare le passioni che attorno alla mensa si incontrano, si confrontano, si fanno relazioni e allegria. L’individualismo ha vinto, anche attorno al cibo.

 

*giornalista, docente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Per Ave ha scritto Donne fuori dagli spot (Roma, 2014)