La lunga notte del delegato e la grazia di essere "popolo che lavora"

Agnese Palmucci

Quanto lavoro c’è da fare, e quanto cammino ci aspetta! Veniva da dire ieri sera, spegnendo il pc, dopo una giornata di assemblea nazionale così ricca di ascolto, dibattito, confronto, preghiera. Il lungo lavoro di emendamento e discussione del documento assembleare, che può sembrare tempo perso nell’epoca del “tutto e subito”, della semplificazione del complesso, ci riporta all’essenza della scelta democratica. Quella peculiarità dell’Ac che racconta un’esperienza profonda di sinodalità, testimoniata tra le generazioni. Che consente in ogni tempo di ridomandarci “per chi siamo”, di ridisegnare i contorni della Storia, dei volti, dei sogni e delle sofferenze di cui siamo al servizio.

Ci vorrebbe un elogio della fatica sinodale. Impegno che non porta, come ci ha ricordato papa Francesco giovedì, ad “un piano da programmare e realizzare”, ma prima di tutto alla consapevolezza di “uno stile da incarnare”. Sinodalità non è fare il “parlamento cattolico”,  non è “cercare una maggioranza” per imporre una preferenza sulle altre. Ma è la fatica del discernimento comunitario innervato dalla presenza dello Spirito, che è “disordine” e profezia sempre nuova. E ieri, nella difficoltà di doversi concentrare da dietro uno schermo, incantava la musicalità delle voci dei delegati e degli accenti regionali diversi che si alternavano nelle proposte degli emendamenti. La “passione cattolica”, il gusto del costruire insieme, traspariva anche dagli occhi più stanchi. Perché ogni parola è importante, ogni tassello ha il suo valore e racconta cosa l’Ac vorrà essere per rispondere alle domande degli uomini di questo tempo.

Della giornata di ieri, primo maggio, è il suono dello “scalpello” che resta nelle orecchie, il ticchettio degli strumenti che fanno miracoli nelle mani semplici e creative di chi ci mette tutto sé stesso. Come quelle di San Giuseppe lavoratore, che ha partecipato al progetto di salvezza per tutti gli uomini del mondo attraverso il suo lavoro da carpentiere. Come le dita dei delegati che scorrevano sulle tastiere, l’impegno di chi conduceva i lavori, di chi gestiva in presenza tutta la parte tecnica e organizzativa. «Ma qual è la nostra profezia?– ha domandato ieri mattina Matteo Truffelli - Come disse Vittorio Bachelet, quella di “aiutare gli italiani ad amare Dio e ad amare gli uomini”. Su questo dobbiamo lavorare». L’autoreferenzialità non deve appartenerci, non è più tempo di sprecare neanche un attimo a guardarci allo specchio. Il Papa ce lo ha ribadito con forza, dobbiamo “camminare insieme dietro al Signore e verso la gente”.  E in questa direzione va il documento assembleare su cui ieri si è lavorato fino a notte, e che oggi pomeriggio sarà approvato.

In questi giorni stiamo chiedendo la grazia di essere “popolo”. Ma nella preghiera di ieri sera, abbiamo domandato al Padre di sentirci “popolo che lavora”. Per entrare nelle pieghe della storia senza paura. Per farci carico della nostra missione di laici, sanando le ferite che sanguinano. Proprio in un tempo in cui celebrare la sacralità del lavoro può suonare scandaloso, quasi un discorso di circostanza, scollato dalla realtà. Perché la pandemia, come abbiamo ascoltato, ha lasciato a casa madri e padri e fatto entrare nelle case, oltre alla sofferenza fisica, anche la crisi economica, che ha svuotato le tavole. E lo sanno gli educatori, a cui i bambini hanno chiesto perché la mamma è stata licenziata. I responsabili hanno asciugato le tristezze dei ragazzi che hanno scoperto la cassa integrazione. Sono 900mila i posti di lavoro che questa emergenza ha cancellato come sabbia. 900mila progetti di vita, 900mila sicurezze. “In tantissimi stanno facendo l’esperienza dell’invisibilità in questo tempo, ma il superamento della solitudine è la condivisione dei pani”, ha ricordato don Marco Ghiazza nel momento di preghiera presieduto da don Fabrizio De Toni.

“Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.  La sfida sarà “accogliere l’imprevisto” e mettere al primo posto una rinnovata vocazione missionaria ed evangelizzatrice. E missione, come ha ricordato Truffelli, è prima di tutto “fermare lo sguardo sulle ferite, sulle nuove povertà, sulle disuguaglianze, chinarci su di esse e farcene carico”. Allora sì che ha senso un “elogio della fatica sinodale”.  Allora sì che ha valore il lungo lavoro della democraticità. Se aiuta a sognare un’Ac che riesca, come chiede Francesco, “ad incidere nella realtà, per farla crescere nella linea dello Spirito e trasformarla secondo il progetto del Regno di Dio”.