L'amore, nessuno ce lo toglierà. Augurandoci una vera Pasqua

Gianni Di Santo

«Perché, vedi, per me la casa è una chiesa. E sarà una chiesa la nostra casa. Chiesa dove si ama, ci si santifica, dove si soffre, dove si nasce, dove si prega. Intanto si parlerà pian piano, con pace e serenità. Poi come in chiesa ci saranno i quadri: i nostri morti. E come in chiesa incominceremo la giornata pregando assieme. Soprattutto meditando insieme. Ho pensato di attuare con te, questo proposito. Alzarsi quando la casa è ancora in silenzio, offrire a Dio la prima mezz’ora meditando assieme le cose di Dio, contemplando i suoi misteri, attendendo la forza per la fatica di tutta la giornata. Poi si partirebbe per andare nella grande chiesa a ricevere Gesù».

Queste splendide parole di fratel Carlo Carretto tratte da Famiglia, piccola chiesa, vengono ad accompagnarci in questo Triduo Santo di passione e risurrezione. Non dimenticando quello che è successo: la pandemia, coloro che non ci sono più e ai quali nemmeno abbiamo potuto dare l’ultima carezza, la precarietà del lavoro, le fragilità dovute a una crisi sanitaria che ci ha spiazzato. Socialmente, umanamente, perfino ecclesialmente. 

Un lungo Triduo Santo di passione che ha avuto inizio giusto un anno fa, apparendo all’improvviso all’interno delle nostre esistenze malate di invincibilità. E, allo stesso tempo, una Pasqua di liberazione vissuta in piedi, come gli ebrei che mangiavano in fretta le erbe amare, tra le mura domestiche. Essa ha avuto, per grazia di Dio, il calore dell’abbraccio familiare, restituendo all’assenza del sacro nel Tempio una liturgia della casa che ha lenito dolore e rassegnazione. E acceso lumi di speranza.

Ecco, Signore. «Non sei qui», dicono i Vangeli. Ma ci sei, eccome se ci sei. Non perché il sepolcro è vuoto, la pietra spostata, le bende giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato, e perché hai deciso di farti vedere solo a Maria di Magdala, l’apostola degli apostoli, per adesso. Ci sei perché questa nostra casa, questa nostra chiesa chiusa per distanziamento sociale, è oggi una porta aperta al mondo, a ciò che verrà, alla speranza che abbiamo saputo costruire in questo anno che pure chiameremo “benedetto”.

Sì, ci sei. Qui in famiglia, con le nostre famiglie allargate, i nonni, i genitori, i figli, le sorelle e i fratelli, i cugini, i nipoti, i fidanzati e chi si vuole bene, i soli, i dimenticati, i poveri, gli stranieri, i disoccupati.

C’è un libro antico aperto in mezzo al salotto. E due candele che lo illuminano. La Parola sacra è presente. E ci benedice.

C’è del cibo che ringrazia la vita. E il sorriso dell’inatteso.

C’è una preghiera quotidiana che è lo stare insieme. Per promessa, e fedeltà restituita. 

Siamo pronti, oggi, dopo un anno di pandemia, a gustare la memoria di Pesach, la liberazione dall’Egitto e dai nostri atti di dimenticanza di Te.

Se poi oltre la porta e la finestra, scriveva sempre Carretto, ci sarà un terrazzino, quattro vasi di fiori, uno studiolo, due cose graziose, tanto meglio, le accetteremo. «Ma se non ci saranno, sapremo sorridere lo stesso perché il più, l’amore, nessuno ce lo toglierà».

Ecco, volevamo assicurarti, Maestro, che l’amore, questo amore, in questa Pasqua duemilaventuno, nessuno ce lo toglierà.