Nascere a Gerusalemme, al tempo del coronavirus

Ada Serra

Nascere a Gerusalemme, al tempo del coronavirus

«La nascita rappresenta sempre un messaggio di vita. In questo periodo di pandemia, però, la vita si fa vedere anche in tanti gesti di solidarietà, sacrificio di sé, dedizione, pazienza, attenzione gli uni per gli altri». Suor Valentina Sala, ostetrica al Saint Joseph Hospital, nel quartiere arabo di Sheik Jarrah, nella Città Santa, racconta come la struttura rappresenti un punto di riferimento per la popolazione palestinese, di religione cristiana e musulmana, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. E da qualche anno accoglie anche pazienti israeliani, sia nei servizi ambulatoriali sia nel reparto maternità, dove attrae soprattutto la possibilità del parto in acqua

 

«La nascita rappresenta sempre un messaggio di vita. In questo periodo di pandemia, però, la vita si fa vedere anche in tanti gesti di solidarietà, sacrificio di sé, dedizione, pazienza, attenzione gli uni per gli altri. È come il granello di senape del Vangelo, che si fa strada in un contesto di ansia, paura, malattia, morte, che sicuramente fanno più rumore». È un messaggio appassionato quello che arriva da un luogo di frontiera, quale è un ospedale al tempo del coronavirus, di una città dalle infinite frontiere come Gerusalemme. Ad affidarlo a SegnoWeb è suor Valentina Sala, ostetrica al Saint Joseph Hospital, nel quartiere arabo di Sheik Jarrah, nella Città Santa. 

La struttura, fondata dopo il 1948 e tuttora diretta dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, di cui fa parte suor Valentina, rappresenta un punto di riferimento per la popolazione palestinese, di religione cristiana e musulmana, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Da qualche anno accoglie anche pazienti israeliani, sia nei servizi ambulatoriali sia nel reparto maternità, dove attrae soprattutto la possibilità del parto in acqua. Suor Valentina, che sta coordinando l’emergenza Covid-19 nel reparto di Ostetricia e Ginecologia, racconta l’approccio con cui viene affrontato soprattutto il momento del parto: «il personale è sotto stress. Le donne hanno paura. Però bisogna comunque far brillare la bellezza della vita e della nascita, che cerchiamo di salvaguardare. Abbiamo trattato come positivi alcuni casi sospetti di coronavirus tra le partorienti. I dispositivi di sicurezza che abbiamo dovuto indossare hanno creato una barriera fisica tra madri e personale sanitario. Però ci siamo sforzati di andare oltre quelle barriere e di far sentire le madri come raggiunte da noi e non come possibili portatrici di contagio. Quando l’ostetrica esce dalla sala parto e finalmente può togliere i dispositivi con cui si è bardata, necessari per la salute di tutti, continua a far sentire la propria vicinanza alla mamma, con l’interfono o parlandole da dietro la porta».

Il coronavirus interrompe – si spera solo momentaneamente – un’esperienza di scambio importante per il St. Joseph Hospital, che è gemellato con l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, una delle strutture sanitarie più colpite dall’epidemia in Italia. «Alla fine del 2016 c’è stato un accordo tra i due ospedali e la diocesi di Bergamo per un gemellaggio che coinvolgesse infermieri e ostetriche – spiega suor Valentina – Nel 2017, 2018 e 2019, siamo andati a Bergamo con gruppi diversi di nostri operatori e per quattro settimane abbiamo visto come lavorano, seguiti da tutor che poi sono venuti nella nostra struttura. La differenza tra noi e l’ospedale Papa Giovanni è enorme, però alcuni sviluppi in questi anni al St. Joseph sono frutto del gemellaggio. Se quest’anno non possiamo incontrarci, il legame prosegue con uno scambio a distanza, in cui manifestiamo loro la nostra vicinanza e riceviamo molti consigli frutto, della loro esperienza sul campo».

Oltre l’emergenza sanitaria, a Gerusalemme la cronicità della crisi tra israeliani e palestinesi è evidente anche intorno al St. Joseph Hospital, come racconta ancora suor Valentina Sala: «in due anni e mezzo, abbiamo visto arrivare e stabilirsi molti ebrei ortodossi, in un quartiere storicamente arabo. L’occupazione è sempre in crescita. Il futuro è imprevedibile e, anche se nel medio periodo non si avranno sviluppi di rilievo per i media internazionale, sono certa che i piccoli segni di fraternità e comunione si moltiplicheranno. Il fatto che coppie di ebrei scelgano di mettersi e mettere i propri neonati nelle mani di sanitari palestinesi è un segno. Questo non ha cambiato la politica, però può aver cambiato alcune persone. Credo che se si fanno nascere i bambini in pace e in un clima di bontà e rispetto, forse questi bambini potranno costruire un futuro di pace. Credo nella ricerca di ciò che è invisibile agli occhi del mondo, perché il Signore trasforma la realtà e allora ci saranno solo sorprese!», conclude.