Scuola, aspettando la riapertura

Marco Testi

La situazione della scuola italiana all’inizio del nuovo e tribolato anno scolastico è davanti alle famiglie italiane. Riuscirà questo sistema ad affrontare la doppia battaglia con il rischio Covid ancora in atto e con la mortificazione della sua ricchezza in termini burocratici? Speriamo di sì. Intanto alcune voci dei protagonisti della scuola ci raccontano cosa pensano

 

L’ombra del Covid aleggia sulla scuola. Che è, insieme alla sanità, uno dei settori chiave del pubblico e, come ha dichiarato il Presidente della Repubblica, «una risorsa decisiva» per il paese. La pandemia ha costretto a tentativi di lezioni a distanza e la ripresa pone inquietanti interrogativi non solo sugli spazi propriamente scolastici (verranno usati anche quelli aperti per le attività fisico-ricreative, le palestre, ecc.) ma anche su come la grande moltitudine di studenti – e non solo studenti – raggiungerà le rispettive scuole, vista la rilevante dimensione del pendolarismo scolastico. Per non parlare di un’altra delicatissima questione, quella dell’edilizia scolastica, con migliaia di studenti e docenti alle prese con edifici fatiscenti, vecchi o inadeguati.  Decine di migliaia di aule devono essere ancora sistemate. Molte scuole – poco meno del venti per cento – non hanno inoltre, il certificato anti-incendio.

I problemi sono davvero tanti, troppi.  Soprattutto quello di una burocrazia che riduce il lavoro dell’insegnamento a una serie di regole e di orari. Claudio Martinelli, che insegna nel liceo “Lorenzo Rocci” di Passo Corese, in Sabina, afferma che «è come se chiamassi a casa un idraulico per fare una riparazione e lo costringessi a lavorare entro binari rigidissimi»; la burocrazia ha lentamente divorato gli spazi propri di una professione che si fonda soprattutto sulla realtà creativa del rapporto insegnante-alunno. Ma non solo questo: c’è da mettere sul piatto la reale integrazione degli alunni con disabilità, la mancanza di connessioni e strumenti digitali adeguati, la rendicontazione minuziosa di ogni aspetto della didattica e della sua organizzazione, le interminabili riunioni talvolta inutili.  Insomma, come afferma Francesca Grimaldi, docente nell’IIS Gregorio da Catino a Poggio Mirteto (Rieti), chi lavora nella scuola si sente un supereroe già solo quando riesce a firmare il registro, inserire assenze, giustificazioni e ritardi e riuscire anche a fare lezione. 

Perfino i presidi devono ammettere che l’apprendimento, dimensione primaria, sulla quale dovrebbe reggersi l’intero impianto scolastico, è passato in secondo piano. Ci sono i risultati pratici che vengono prima di tutti: numero di iscrizioni, per non incorrere nell’inevitabile accorpamento tra più istituti, livelli di apprendimento da raggiungere per non rischiare di essere una scuola di “serie B”, la concorrenza: ognuno faccia quello che può, tanto alla qualità dell’insegnamento ci penseranno i docenti, con il tempo e con l’energia che rimangono loro, e che, come fa notare Giuliana Vazza, dirigente dell’Istituto di Istruzione superiore “Angelo Frammartino” di Monterotondo, sono tra i pochissimi a non avere una vera e propria carriera strutturata.

Soluzioni? Facile a dire, certo, ma uno sfrondamento delle pratiche burocratiche, di riunioni fatte solo per rispettare il monte ore – altro evidente equivoco in una professione in cui si è burocratizzato di tutto, dal tempo ai minuti esatti di riunione – per un ritorno salutare (soprattutto per i ragazzi) a una vera autonomia dell’insegnante. La scuola è diventata un territorio fatto di numeri e voci, tutto il resto non ha più nessuna importanza.  Di fronte a ragazzi che chiedono, come direbbero i Pink Floyd di Time, “qualcuno che ti mostri la strada”, in un mondo in cui la costruzione di un rapporto che coinvolga gli studenti e li faccia sentire aiutati, capìti, dovrebbe essere fondamentale, moltissimi docenti hanno la certezza che si stia avviando un processo di computo algebrico della didattica. In un rapporto che dovrebbe essere di relazione dialettica, costruttiva tra un insegnante e una classe di allievi, con tutto quello che questa dimensione comporta. Ed è la didattica reale, quella non quantificabile in termini matematici e spazio-temporali che molti vorrebbero fosse riportata al centro del sistema-scuola. «La parola d’ordine è riportare la didattica al centro dell’attività scolastica, come lettura del reale», afferma con forza Diego Picano, docente all’Istituto di Istruzione superiore di Pontecorvo (Frosinone). Cui fa eco Caterina Crocchiante, che insegna nella scuola media Baccelli di Tivoli: «didattica vuol dire non solo trasmissione di saperi e contenuti ma anche, e soprattutto, socialità, aggregazione, confronto e inclusione».

Riuscirà questo sistema ad affrontare la doppia battaglia con il rischio Covid e con la mortificazione della sua ricchezza in termini burocratici?  Speriamo di sì, visto che ad esempio nel campo per noi vitale del turismo la dimensione informatica potrebbe coniugarsi con quella della cultura. Creando non pochi posti di lavoro.