«Non temere, Ac». Le parole-chiave del presidente

Red

La bussola dei gesti e delle parole di papa Francesco. L'identità più profonda e costantemente "profetica" dell'Azione cattolica. Le sfide del presente e del futuro, spinti da un sentimento di gratitudine per la nostra storia. È densa e appassionata la relazione del presidente Matteo Truffelli, che apre la giornata più importante della XVII Assemblea nazionale: quella in cui si dibatte liberamente, si vota il nuovo Consiglio nazionale e si emenda il documento assembleare. Proviamo a riassumere attraverso le parole-chiave questo testo intenso, che troveremo integralmente sul sito dell'Azione cattolica e sul sito dell'Assemblea nazionale.

FIDUCIA

«Questo è tempo di speranza, di sguardo rivolto al futuro. Per progettare un cammino diverso da quello che avevamo in mente fino a un anno fa, provando a scorgere i sentieri che si aprono davanti a noi con la certezza che la nostra associazione avrà la passione, la creatività e la generosità che occorrono per poterli percorrere. È tempo di gratitudine, in cui riconoscere il bene che il Signore semina sempre, in ogni frammento di vita e in ogni stagione della storia. Gioiamo insieme per il dono dell’Azione Cattolica, aiutiamoci ad essere più consapevoli di cosa essa rappresenta per centinaia di migliaia di persone, cosa può e deve rappresentare per la realtà in cui siamo radicati. La prima chiave su cui fondare il nostro discernimento è perciò la fiducia. La fiducia dei discepoli che dopo un notte di pesca infruttuosa gettarono le reti solo «sulla sua parola». Sappiamo di poterci affidare, perché il Signore mantiene le promesse, e per questo non temiamo di immergerci nella storia, addentrarci per i vicoli delle città e gli spazi delle periferie»

PROFEZIA

«Anche all’Azione Cattolica è chiesto di essere profetica. È importante domandarci cosa questo può significare. Ed è compito di questa Assemblea tentare di capire come l’AC di oggi può e deve essere profetica, per il mondo di oggi, per la Chiesa di oggi. Profeta non è colui che gioca in anticipo sulla storia, compie gesti clamorosi o rilascia dichiarazioni eclatanti, non è colui che si straccia le vesti con indignazione di fronte alle inadeguatezze degli uomini. Non è stato così Vittorio Bachelet, non lo sono stati Armida Barelli o Carlo Carretto, e nemmeno Luigi Sturzo, Primo Mazzolari o Tonino Bello. Casomai profeta è colui che concorre con «umiltà e mitezza», come ci ha detto ieri il Papa, a far maturare le condizioni perché la storia si trasformi, colui che sa vedere di cosa davvero il suo tempo ha sete. Saremo un’AC profetica se sapremo leggere la realtà andando in profondità, e mostrare dentro di essa il bene che è all’opera. Se sapremo custodire i germogli di questo bene e favorirne la crescita con «la pazienza del contadino», e con «la perseveranza della sentinella», che anche dentro la notte sa dare testimonianza dell’alba che sopraggiunge. È questo ciò di cui siamo debitori al nostro tempo, alla Chiesa, alla società di cui facciamo parte, alle persone alle quali desideriamo farci prossimi.

La profezia di cui sembra avere più bisogno il nostro tempo, la cultura in cui siamo immersi e la politica che ne è espressione, perfino la Chiesa in cui camminiamo, è la profezia della mitezza. Che è forza tenace e coraggiosa di cambiamento, non arrendevolezza, non assuefazione allo “spirito del tempo” e del politicamente corretto. Mitezza come rifiuto di ogni forma di arroganza, di prevaricazione, di enfatizzazione delle divisioni. Come unico modo adeguato di vivere la fraternità. Come rigore e chiarezza di linguaggio, non come rinuncia a parlare.

CITTÀ

«È qui, nella città, che si radica il nostro impegno... Le forme e gli strumenti che una realtà come l’AC può utilizzare per adempiere a questa sua precisa responsabilità non possono però essere quelli del potere: politico, economico o mediatico che sia. Io provo a esplicitare alcuni criteri con cui in questi anni abbiamo cercato il modo di volta in volta più adeguato per essere presenti nel dibattito pubblico. Senza inseguire la cronaca e farci prendere dall’urgenza di dover intervenire su tutto, ma con la preoccupazione di guardare sempre alla realtà dal punto di vista di chi ha meno possibilità di far valere i propri diritti, la propria voce, i propri bisogni. E ponendo molta attenzione a far sì che lo stile, i toni, il linguaggio utilizzati per offrire spunti di riflessione potessero essere percepiti come un reale tentativo di aprire il confronto, non di chiudere il discorso. Abbiamo pensato che fosse questo il contributo specifico che potevamo portare nel clima che ha avvolto il nostro Paese in questi anni. Non solo per i nostri aderenti. È l’Italia che ha bisogno che qualcuno mostri che è possibile svelenire il dibattito, argomentare invece che urlare, vedere le sfumature invece che semplificare. Credo sia opportuno aggiungere che accanto alla necessità di continuare a formare cittadini consapevoli e critici ci sembra importante portare avanti e anzi rilanciare con maggior convinzione il percorso avviato da tempo per accompagnare e custodire chi, tra i nostri aderenti e non solo, ha scelto di impegnarsi in politica. Lo possiamo fare solo se ce ne faremo carico tutti insieme. Se saremo capaci di mostrare a coloro che hanno fatto una scelta importante di servizio che l’associazione rimane casa loro, a prescindere dalla collocazione politica. Se sapremo riaffermare che la pluralità è ricchezza, e che ben più radicali sono le ragioni dell’unità, che appartengono a un piano diverso. Se sapremo superare davvero l’idea che ci sia un’unica possibile traduzione politica dei valori in cui crediamo e della fede che viviamo. Solo così potremo sottrarci alla tentazione di “tirare il Vangelo per la giacca”, ascrivendolo con troppa leggerezza alle nostre convinzioni di parte. È questo un altro contributo decisivo che possiamo portare alla società e alla Chiesa italiana» .

NELLA CHIESA CON PAPA FRANCESCO E CON TUTTI

Particolarmente intenso il paragrafo dedicato alla vita della Chiesa e nella Chiesa. Ne consigliamo la lettura integrale.

«Anche la Chiesa, del resto, come la società italiana, è attraversata da tensioni e contrapposizioni. Francesco la scuote ogni giorno per farle ritrovare slancio missionario, ma il coraggio e l’energia del Papa non bastano, in una Chiesa che fa molta fatica a ripensarsi. La sua spinta suscita grande speranza in tantissimi, attrae e interpella il cuore di molti non credenti, ma deve misurarsi anche con i timori e le incomprensioni di una parte della comunità ecclesiale, spesso polemica e rancorosa. Gli attacchi continuano senza pudore, senza senso della misura e della responsabilità. In questi anni lo abbiamo detto tante volte, e lo ripetiamo oggi: l’Azione Cattolica sta con Papa Francesco. Preghiamo per lui, facciamo nostre le sue indicazioni, gli diciamo grazie per il vigore e la serenità con cui porta avanti il suo ministero.

Anche tra coloro che condividono l’impostazione del pontificato, peraltro, c’è chi si dimostra dialogante e sinodale solo a parole, non però negli atteggiamenti e nelle scelte concrete. Da più parti, insomma, emerge la tendenza a fomentare anche in campo ecclesiale divisioni ideologiche, segno di una mancanza di carità. Queste divisioni – alimentate ad arte da chi nelle gerarchie, nei luoghi di pensiero, nelle aggregazioni laicali, nei mezzi di comunicazione, nel sottobosco degli affari e nel mondo politico ha perduto o teme di perdere posizioni di potere e di prestigio, oppure spera di guadagnare spazio – finiscono per disorientare tante persone, producono ferite, generano sfiducia. Proprio per questo non vogliamo concorrere ad alimentare le contrapposizioni, trasformando le nostre comunità parrocchiali e diocesane in campi di battaglia. Cinquant’anni fa l’Azione Cattolica seppe farsi carico di rimanere in mezzo alle tensioni postconciliari provando a non lasciare indietro nessuno. Si mise con determinazione a disposizione della Chiesa italiana per tradurre in scelte concrete il Concilio senza percorrere la strada della rottura. E ne pagò il prezzo: da alcuni venne accusata di non essere abbastanza coraggiosa, di rimanere ancorata a un modo di pensare la Chiesa troppo “istituzionale”, altri le imputarono di aver ceduto allo spirito del tempo, di aver rinunciato alla propria identità, di aver perso autorevolezza agli occhi della società italiana. I cinquant’anni e più che sono passati da quella scelta hanno dimostrato la natura profetica di quel modo di procedere: senza strappi, con prudenza, ma con una chiara direzione di marcia. Con il coraggio di chi si preoccupava di generare processi.

Oggi c’è chiesto di fare lo stesso: continuare, come ci siamo detti tante volte, a lavorare con passione, gratuità e gratitudine per fare della nostra associazione uno strumento di attuazione del «sogno» di Chiesa disegnato dal Papa. Al tempo stesso, non possiamo cadere nella tentazione di «guardarci allo specchio» e «metterci comodi in poltrona». Anche l’anno che abbiamo trascorso confrontandoci con l’inaspettato della pandemia ci ha fatto comprendere quanto sia importante non smettere mai di metterci in discussione. Non si tratta di ripensare regole e strutture, ma di vivere noi per primi un’autentica «conversione missionaria», per aiutare tutta la Chiesa a divenire più missionaria. E questo significa anche dedicare meno tempo a misurare le nostre forze e a fare l’elenco delle difficoltà che abbiamo davanti. Smettiamo di chiederci come stiamo, iniziamo a domandarci con più insistenza «per chi» siamo»

MISSIONE

Missione è pensare «alle tante questioni poste dalla vita delle città, soprattutto se di grandi dimensioni. In termini di ripensamento della pastorale, ma anche di vicinanza a chi vive nella solitudine dell’isolamento urbano, o chi sperimenta lo sradicamento tipico di una vita da fuori sede e da pendolare, studente o lavoratore che sia. Pensiamo ai tanti Sud del nostro Paese, e all’incertezza che comporta crescere nei piccoli centri della dorsale appenninica. Alle trasformazioni e alle difficoltà che avvolgono il mondo del lavoro. E pensiamo ai passaggi delicati che segnano la vita ecclesiale: le difficoltà incontrate dai percorsi di ristrutturazione delle parrocchie in unità più grandi, l’età media e la scarsità numerica dei presbiteri, le spinte sempre più forti verso una sorta di “clericalizzazione del clero” (se si può dir così), ma anche di molti laici e di tante comunità. Il Papa ieri ci ha avvertito con forza che questo rischio riguarda anche noi: «il pericolo è la clericalizzazione dell’Azione Cattolica», ha detto. Ed evidentemente deve considerarlo un pericolo serio, se subito dopo ha aggiunto «ma di questo parleremo un’altra volta, perché sarebbe troppo lungo». E ancora. Pensiamo alla persistente rigidità della pastorale, che spesso cerca risposte efficientiste affidandosi alla moltiplicazione delle iniziative, senza lasciarsi scuotere dal nostro tempo e senza avviare, di conseguenza, un reale e profondo ripensamento della catechesi e delle forme di annuncio.

Ogni associazione parrocchiale e diocesana, ogni gruppo di acierrini o di giovanissimi, di giovani o di adulti, di studenti o di lavoratori deve chiedersi come accorciare le distanze con la vita delle persone di cui incrocia il cammino. “Andare loro incontro”: è questa la dinamica della missione, perché non possiamo più pensare di praticare l’evangelizzazione solo per “convocazione”, ma anche, necessariamente, per “immersione”, che vuol dire per incarnazione».

SENTIRSI ASSOCIAZIONE, TESTIMONIARE SINODALITÀ, VALORIZZARE I MOVIMENTI

«Per ora possiamo dire che per l’AC il cammino sinodale è un percorso in cui stare con entusiasmo, mettendoci a disposizione con umiltà e responsabilità, non per occupare spazi ma per portare, con semplicità, il contributo di una lunga e feconda storia di corresponsabilità laicale. È questa la profezia più autentica dell’AC. È in questo che si condensano le scelte fondamentali dello Statuto, si riassume la nostra identità e si chiarisce la nostra missione: nel nostro essere «un’associazione di laici che si impegnano liberamente, in forma comunitaria e organica e in diretta collaborazione con la gerarchia, per la realizzazione del fine generale apostolico della Chiesa», come recita l’articolo 1 del nostro Statuto.

Essere associazione non rappresenta un dato organizzativo: vorrebbe dire cadere nel «tranello degli organigrammi»  e nella «illusione del funzionalismo» da cui ieri ci ha messo in guardia Francesco. Essere associazione è un modo di pensare la Chiesa, la forma attraverso cui sperimentiamo che «non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo». Che «nessuno si salva da solo, come individuo isolato», poiché «Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana».

Allora dobbiamo continuare a scommettere sul nostro essere associazione. Investire  sulle relazioni, sulla corresponsabilità, sulle persone.

E ancora: investire sui movimenti, risorsa missionaria per tutta l’associazione. Non è certo un caso se in questi anni sono nati tanti circoli del Msac, con il sostegno di moltissimi presidenti e vicepresidenti diocesani, l’accompagnamento del Settore giovani, la cura appassionata di tutta l’associazione. È un dato semplice, ma significativo: perché tra i banchi di scuola i giovanissimi modellano la propria vita, imparano a confrontarsi con il mondo adulto, si riconoscono come cittadini, espongono la fede alle domande e ai dubbi dell’esistenza. Non dobbiamo smettere di camminare in questa direzione con ancor più convinzione. Tutti insieme.

È una spinta che dobbiamo essere capaci di condividere maggiormente anche con i cosiddetti movimenti esterni, con le peculiarità e le ricchezze che li contraddistinguono. Fuci, Meic, Mieac e anche Gioc: forse è giunto il tempo di avviare un ripensamento complessivo del loro ruolo, domandandoci in che modo ciascuno di essi potrebbe contribuire in maniera ancora più significativa alla vita dell’associazione. Rispettando e valorizzando le specificità di ciascuno di essi, ma sapendo anche sperimentare insieme vie nuove, con creatività. Un percorso che si può realizzare solo con la partecipazione di tutta l’associazione.

Scommettere sul nostro essere associazione vuol dire anche puntare su un rinnovato senso di militanza Scommettere sul nostro essere associazione vuol dire anche puntare su un rinnovato senso di militanza, nell’accezione migliore del termine. Rilanciare quella passione per l’AC - che è passione per la Chiesa - che ci è stata consegnata da donne straordinarie come Armida Barelli, di cui avremo presto la gioia di festeggiare la beatificazione, e come Sitia Sassudelli, Maria Teresa Vaccari, Maria Dutto e Anna Santi, tornate alla Casa del Padre in questi quattro anni».

IL RESPIRO DEL MONDO, LA CULTURA DELLE ALLEANZE

«Essere associazione ha poi un’altra dimensione che dobbiamo saper valorizzare: quella internazionale. Abbiamo ancora nel cuore il momento vissuto quattro anni fa con le ACc di tutto il mondo insieme a Papa Francesco, e  lo straordinario discorso che egli ci rivolse in quell’occasione. Quel giorno rappresenta al contempo un punto di arrivo - esito di molti anni di crescente conoscenza, amicizia e collaborazione tra le associazioni dei vari continenti - e un punto di partenza, perché ci deve far cogliere l’importanza di essere un’AC che respira con il respiro della Chiesa universale. Anche questo volevamo indicare quando, quattro anni fa, abbiamo deciso di dare vita al progetto “Al veder la Stella...”. E oggi siamo davvero contenti di poter dire che nei tre anni precedenti la diffusione del Covid non c’è stato un turno di presenza all’Hogar che sia andato deserto.

Con la Presidenza nazionale abbiamo costruito una collaborazione profonda e assidua con l’Agesci, confrontandoci su alcuni dei temi più cruciali del servizio educativo. Abbiamo vissuto una profonda sintonia con le presidenze delle Acli e del Movimento dei Focolari. E con la Comunità Papa Giovanni XXIII, S. Egidio, Comunione e Liberazione, Rinnovamento nello Spirito Santo. Abbiamo partecipato con convinzione agli organismi di coordinamento di cui facciamo parte: Consulta delle aggregazioni laicali, Retinopera, Libera. Abbiamo partecipato a molti tavoli di lavoro. Abbiamo costruito alleanze ben al di là dei confini ecclesiali. Come abbiamo detto, è proprio questo il significato di aver chiesto alla dottoressa Pasinelli (Telethon) di assumere la Presidenza onoraria della nostra Assemblea.

Sappiamo che molte iniziative simili sono state realizzate anche a livello territoriale. Adesso ci dobbiamo impegnare per passare dalla costruzione di singole alleanze alla promozione di una “cultura delle alleanze”. Perché siamo convinti che in questo tempo in cui sembra prevalere uno spirito di frantumazione l’unico modo per abitare in maniera responsabile il nostro tempo sia quello di farci promotori di ciò che unisce. Perché è questa la nostra natura, la nostra forza, direi quasi il nostro talento. Vale la pena ribadirlo: lavorare insieme agli altri, fare dell’AC un elemento di amalgama e non di divisione, di cooperazione e non di concorrenza, nella comunità ecclesiale e tra le pieghe della società, non è qualcosa che rischia di indebolire la nostra identità e la nostra missione: è qualcosa che ce la ridona. Qual è questa identità? Qual è la nostra profezia? Per cosa siamo qui oggi? In fondo, come disse Vittorio Bachelet il giorno della sua nomina a Presidente generale, la ragione per cui esiste l’Azione Cattolica è, molto semplicemente, quella di «aiutare gli italiani ad amare Dio e ad amare gli uomini». È su questo che dobbiamo lavorare».

È stata una relazione franca, molto franca. Che non ha dribblato alcun punto. Compresi la necessità di farci carico insieme, insieme, delle fatiche economiche dell'associazione. Dice Truffelli: «In questi anni ci siamo confrontati in modo molto impegnativo, come presidenza e come consiglio nazionale, con la necessità di affrontare le difficoltà economiche dell’associazione, nella sua dimensione nazionale come per molte realtà diocesane, e abbiamo avvertito fortemente la responsabilità di custodire e valorizzare il nostro patrimonio, che non è solo economico ma anche storico e affettivo. Abbiamo individuato una strada precisa da percorrere. Speriamo - e siamo ragionevolmente convinti - che nel giro di poche settimane si possa giungere a compiere un passo decisivo, affidando la gestione della Domus Mariae a un importante soggetto del panorama turistico nazionale. Ci tengo a dire a nome di tutti un grande grazie all’Amministratore nazionale, Lucio Turra, e a Michele Tridente, per l’enorme lavoro che hanno svolto per rendere possibile questo passaggio. Altre scelte coraggiose andranno compiute per la Domus Pacis. Il processo di risanamento economico è dunque istruito, e speriamo possa dare buoni frutti, ma c’è ancora molto da fare per portarlo a compimento. Sarà possibile solo con il sostegno di tutti».