Rosario Livatino, beato, martire e uomo della profezia evangelica
«Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Era il 9 maggio del 1993 quando Giovanni Paolo II sferzò il vento della Valle dei Templi di Agrigento con un’omelia dalle parole durissime contro la mafia. Anche la sua voce tuonò forte. E, oggi, non a caso, proprio domenica 9 maggio, il giudice “ragazzino” Rosario Livatino verrà proclamato beato. A presiedere la celebrazione nella cattedrale del comune siciliano, sarà il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Nell’udienza al Consiglio superiore della magistratura, il 17 giugno 2014, papa Francesco definì Livatino «testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana».
Una storia esemplare, quella di Livatino. Famiglia semplice, studi rigorosi, impegnato in Azione cattolica (su Livatino l’Ave ha pubblicato Il piccolo giudice, di Ida Abate), morì a soli 38 anni il 20 settembre del 1990 per mano di quattro killer della mafia agrigentina, ucciso – era solo e senza scorta nonostante le minacce ricevute – lungo la statale che ogni mattina percorreva con la sua utilitaria da Canicattì, dove viveva con i genitori, al tribunale di Agrigento.
Il 22 dicembre 2020, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto che ne riconosce il martirio “in odio alla fede”. Nel documento si legge che era nota la sua «dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante».
Rosario Livatino, ha detto il card. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, «è stato un appassionato difensore della legalità e della libertà di questo Paese. Un autentico rappresentante delle istituzioni che è riuscito a incarnare la certezza del diritto e anche la cultura morale dell’Italia profonda: di quell’Italia che non si arrende alle ingiustizie e alle prevaricazioni, e che non cede agli ignavi e a coloro che si adeguano allo status quo: anche quando lo status quo è rappresentato dalla mafia».
Un uomo delle Beatitudini, perché aveva “fame e sete di giustizia”. E un uomo della profezia. Livatino lascia a tutti noi una preziosa eredità civile e spirituale. «Il suo martirio parla alla Chiesa e all’Italia intera – sono ancora le parole di Bassetti –. Ma soprattutto parla alle giovani generazioni: a coloro che non sono ancora compromessi e che possono, anzi, devono resistere, con tutta l’energia e il coraggio della gioventù, alle false lusinghe malavitose».
Ecco perché il 9 maggio è la festa della profezia evangelica. Ce lo ricorda, ancora, oggi, proprio lui, Rosario Livatino, il primo magistrato laico, impegnato in prima fila nella lotta alla mafia, a essere proclamato beato e martire.
Martire di un Sud libero ed esemplare, e di una giustizia che non ha paura di chi la vuole ancora far soccombere.