Una bomba nel cuore del Corno d'Africa

Stefano Leszczynski

Tigray: quella che doveva essere una guerra lampo, almeno nelle intenzioni del governo etiope, si è però trasformata nel giro di tre mesi in una delle più gravi catastrofi umanitarie che l’intero Corno d’Africa abbia mai vissuto. In questo incandescente contesto colpisce la totale assenza di una presa di posizione chiara da parte dell’Unione Africana, così come non può non suscitare perplessità l’inazione dell’Onu, la cui agenzia per i rifugiati si trova impegnata sul terreno nel più completo isolamento internazionale e costretta per fronteggiare la crisi umanitaria a elemosinare aiuti finanziari che non arrivano

 

Il 4 novembre 2020 il premier etiope e premio Nobel per la pace, Abyi Ahmed, ha ordinato all’esercito federale di prendere il controllo dello Stato regionale del Tigray e di reprimere la rivolta del partito di governo locale, il Tigray People’s Liberation Front (Tplf). Quella che doveva essere una guerra lampo, almeno nelle intenzioni del governo etiope, si è però trasformata nel giro di tre mesi in una delle più gravi catastrofi umanitarie che l’intero Corno d’Africa abbia mai vissuto e le sue conseguenze politico-internazionali rischiano di essere altrettanto disastrose. 

Attualmente sono almeno 58mila i profughi fuggiti in Sudan e il loro numero è in crescita costante. L’Unhcr, unica organizzazione internazionale a tentare di gestire la crisi, ha lanciato un drammatico allarme per bocca dell’alto Commissario Filippo Grandi, il solo esponente internazionale che sia riuscito a entrare per pochi giorni in Etiopia e a denunciare apertamente la grave situazione umanitaria. Almeno un quinto dei 5 milioni di abitanti del Tigray ha dovuto lasciare le proprie case ed è allo stremo, senza cibo, acqua, assistenza sanitaria. Il conflitto ha inoltre aggravato le conseguenze di una pesante carestia che da quest’estate si è abbattuta su tutta la regione. Combattimenti, fame e malattie mietono migliaia di vittime ogni settimana e come da copione i racconti di chi è riuscito a fuggire parlano di stupri, violenze d’ogni genere, soprusi, arresti arbitrari, sparizioni, esecuzioni sommarie.

Derubricata dalla comunità internazionale al rango di resa dei conti interna all’Etiopia tra il Tplf – espressione storica del dominio tigrino fino alla scomparsa del suo leader Meles Zenawi – e la coalizione partitica guidata dalla maggioranza oromo e amhara, la guerra del Tigray è stata condotta fino a oggi a porte chiuse. Per ordine di Abyi Ahmed l’Etiopia è stata, infatti, sigillata; qualsiasi presenza internazionale o straniera espulsa, ogni comunicazione con l’esterno interrotta. Quello che si sa di questa guerra, ufficialmente conclusa il 28 novembre con la presa della capitale tigrina Macallé, è frutto dei racconti dei profughi e delle notizie di intelligence. Molti dei massacri degli ultimi giorni, compreso quello avvenuto ad Axum con 750 persone trucidate, trovano un riscontro anche dalle rilevazioni satellitari.

Se gli orrori di questo conflitto etiope sfuggono ancora al controllo internazionale sta però crescendo l’attenzione per le ripercussioni di questa guerra sui delicati equilibri geopolitici della regione. L’Eritrea è coinvolta nei combattimenti sul terreno come alleata del premier Abyi e in funzione antitigrina, ma il suo vero obiettivo sono i rifugiati eritrei in Etiopia che vengono perseguitati, uccisi e spesso rimpatriati. Un’occasione ghiotta per il presidente Isaias Afewerki per mettere a tacere i dissidenti fuggiti dal paese. Un altro alleato – non ufficiale – del governo etiope è al momento la Somalia il cui coinvolgimento è venuto alla luce dopo la morte di centinaia di soldati somali nei più recenti scontri con ciò che resta del Tplf; anche in questo caso il movente è quello di regolare i conti con il movimento del defunto leader tigrino Zenawi, che nel 2007 con l’appoggio Usa aveva mosso guerra alle Corti islamiche in difesa del governo provvisorio somalo rifugiato a Baidoa. Anche gli Emirati Arabi Uniti, interessati al controllo del Mar Rosso, sostengono con le proprie basi di droni in Eritrea l’intervento contro i miliziani tigrini fin dai primi giorni della guerra. A Occidente la crisi dei profughi etiopi ha contribuito a riaccendere le tensioni con il Sudan sulle zone di confine contese (dove si sono verificati degli scontri) e sulla controversia relativa alla costruzione da parte etiope della Grande diga sul Nilo (Gerd – Grand Ethiopian Renaissance Dam), un dossier scottante che coinvolge direttamente anche l’Egitto del presidente al-Sisi. 

Ad accorciare ulteriormente la miccia della bomba innescata con l’intervento militare in Tigray, è l’aria di sommossa che spira in altri Stati regionali dell’Etiopia pronti ad approfittare della distrazione del governo centrale di Addis Abeba. 

In questo incandescente contesto colpisce la totale assenza di una presa di posizione chiara da parte dell’Unione Africana, la cui sede si trova proprio ad Addis Abeba, così come non può non suscitare perplessità l’inazione dell’Onu, la cui agenzia per i rifugiati si trova impegnata sul terreno nel più completo isolamento internazionale e costretta per fronteggiare la crisi umanitaria a elemosinare aiuti finanziari che non arrivano.