Welfare Society: dalla pandemia a una nuova libertà

Roberto Gatti*

Welfare Society: dalla pandemia a una nuova libertà            

Durante questo tempo di emergenza sanitaria si sono richiamati i cittadini alla responsabilità, ma la responsabilità non si esercita solo nel rispettare regole imposte dall’alto, bensì contribuendo fattivamente e comunitariamente nel periodo difficilissimo che si apre. Che poi una direzione centrale serva ancora è ovvio, ma il futuro della nostra democrazia – che paradossalmente ci è offerto da una tragedia immane – è nel non irrigidire entro schemi, scadenze, diktat un po’ incomprensibili (vedi il documento per la "fase 2") una forza che se non sarà valorizzata rientrerà nella sua nicchia. Forze sociali libere di operare, di creare, di rinnovarsi entro un indirizzo generale fornito dal Governo e dalla Protezione civile. È l’occasione, forse irripetibile, di recuperare nella sua essenza propria, contro quel singolare dirigismo che alla fine lascia libero solo il mercato, l’idea e la prassi della Welfare Society

 

Il primo momento del Coronavirus è stato segnato da una diffusa sottovalutazione del fenomeno a livello politico e da un forse in parte comprensibile indifferenza generalizzata. Ma dal momento del “blocco” di marzo l’Italia ha mostrato un volto diverso. Mi riferisco soprattutto ai comportamenti di quella che ormai chiamiamo un po’ tutti “società civile”. Il passato (con evidenza sempre maggiore negli anni più recenti) sembrava aver mostrato e diffuso l’immagine di una collettività divisa, in cui ognuno viveva raggomitolato in sé stesso o aderiva a compagnie ristrette, quasi a corporazioni, in cui il senso della comunità pareva scomparso. Naturalmente va fatta eccezione per organismi che operavano ancora, in controtendenza, con un forte spirito di solidarietà e che sono stati fondamentali in occasioni di tanti recenti tragici eventi. Ma a dominare il quadro era il disegno a tinte grigie di un paese apparentemente atomizzato, litigioso, permeato di egoismo. La classe politica agiva come uno specchio di questa situazione, ignorando, in una sua parte cospicua, le sollecitazioni, anche molto autorevoli, all’unità, alla ragionevolezza, alla pacatezza, al rispetto delle istituzioni e della Costituzione.

Ebbene, l’emergenza, arrivata al culmine, ci ha posto di fronte, almeno nella maggioranza dei casi, a qualcosa di molto diverso: non parlo tanto degli applausi alle finestre, di Bella ciao cantata dai balconi, dell’Inno di Mameli che, per una volta, non abbiamo ascoltato solo in occasione dei Mondiali di calcio. Parlo anche di questo naturalmente, ma soprattutto intendo riferirmi alla solidarietà attiva di medici, infermieri, addetti all’igiene degli ospedali, ma anche delle persone comuni che hanno messo al servizio della società i loro mestieri, i loro talenti, le loro funzioni bloccate dalle norme in vigore, ma “riciclate” in maniera tale da risultare utili alla comunità. Abbiamo visto così ristoranti, pizzerie, piccole o piccolissime imprese che si sono inventate modi ingegnosi e generosi per non restare con le mani in mano e hanno contribuito al bene comune. È stato, a tutti gli effetti, uno scatto magari imprevisto, ma che ci ha posto davanti agli occhi tante piccole e meno piccole realtà del paese indirizzate, senza alcun coordinamento ma per libera iniziativa di ciascuno, a servire gli altri. Molti – si dirà – lo hanno fatto anche per un loro interesse, per non chiudere bottega sine die. Ma questo conta marginalmente, perché solo l’interesse, come unico movente, non li avrebbe mai indotti a mettersi all’opera con tanta buona volontà. Tutti li abbiamo visti in televisione, nei social, li abbiamo letti sui giornali, e abbiamo capito che, pur sull’orlo del fallimento, hanno alzato la testa e hanno rifiutato l’indifferenza e i lamenti. Non c’è niente di retorico nel dire che l’Italia si è ritrovata unita, forse con tanta fragilità ma anche con commovente convinzione, annullando la distanza fisica con lo slancio del cuore. Niente, teorie, niente proclami, niente retorica.

Adesso che si sta – troppo lentamente rispetto alle speranze – uscendo dalla cosiddetta “fase 1”, bisognerà pure trarre un bilancio da quanto abbiamo visto e continuiamo a vedere. E la prima cosa da dire, mi sembra, è che il potenziale di unità civica e morale mostrato dalla “società civile” (o, se vogliamo, più modernamente, dai “mondi vitali”) ci ha offerto il senso di un’alternativa netta e palese alla litigiosità delle forze politiche. Ma questo non basta. C’è di più: c’è l’indicazione che la ricostruzione del paese deve puntare su questa autonoma capacità di auto-organizzazione delle forze sociali, sulla loro riserva etica (che troppe indagini sociologiche davano per morta e defunta), sulla loro capacità di unire interesse privato e pubblico, di fare del privato, come si era detto per anni da parte di alcuni, un soggetto “sociale” e, direi anche uno spazio di iniziativa politica che possa supplire alla macchinosità, alla lentezza, alle incertezze della classe politica di governo. 

Governo e società dovrebbero ora agire insieme, mettendo alle spalle il decisionismo (un po’ bislacco qualche volta, ma decisionismo era) della fase 1, evitando le commissioni di “esperti” e sostituendole, ove possibile, con gruppi di lavoro composti da chi a vario titolo opera in settori della società che hanno mostrato la loro inventiva e vera competenza (in questi mesi, per il turismo balneare, ad esempio, ci serve più un bravo bagnino che un esperto di geometria…; per i sentieri di montagna meglio un’abile guida alpina che un esperto, che so, di geologia o di marketing del turismo alpestre). Non si tratta – per continuare con questo esempio – di mutare la composizione di questa o quella commissione, bensì di cooptare e innanzitutto di lasciar lavorare in libertà le forze vive della società con fiducia sulle loro potenzialità nei vari campi. Si sono richiamati i cittadini alla responsabilità, ma la responsabilità non si esercita solo nel rispettare regole imposte dall’alto, bensì contribuendo fattivamente e comunitariamente nel periodo difficilissimo che si apre. Che poi una direzione centrale serva ancora è ovvio, ma il futuro della nostra democrazia – che paradossalmente ci è offerto da una tragedia immane – è nel non irrigidire entro schemi, scadenze, diktat un po’ incomprensibili (vedi il documento per la fase 2) una forza che se non sarà valorizzata rientrerà nella sua nicchia e spesso finirà di operare semplicemente perché sarà condannata al deperimento e alla scomparsa dalla scena.

Forze sociali libere di operare, di creare, di rinnovarsi entro un indirizzo generale fornito dal Governo e dalla Protezione civile. È l’occasione, forse irripetibile, di recuperare nella sua essenza propria, contro quel singolare dirigismo che alla fine lascia libero solo il mercato, l’idea e la prassi della Welfare Society. 

* già docente di Filosofia politica all'Università di Perugia