La vita comune, oltre disincanto e disperazione
«Ah Maestro, Maestro, non posso pensarci senza piangere. Capisci? Mi veniva detta la parola, quella che ogni essere umano attende da prima della nascita, la parola che lo giustifica d’esser nato […]. E sii tu benedetto, Maestro, per aver parlato. Da allora io sono un uomo nuovo. Capiscimi bene: non dico di essere migliore. No, dico: nuovo. Infatti, anche se mi occorre tutta la vita – e già essa volge al declino, ne avrò il tempo? – per avvicinarmi un po’ a quello che chiedi, e che è così elevato, da ora io sono quell’uomo tutto nuovo, come un bimbo appena nato. E sai dove sta la differenza? Che mi pare, a causa della tua parola, di non poter più disperare di me stesso». Queste parole Maurice Bellet le mette in bocca a Zaccheo in un piccolo testo, potentissimo, nel quale il sacerdote e psicanalista francese ripropone, in veste drammatizzata, la narrazione evangelica dell’incontro di Gesù con il pubblicano che seppe arrampicarsi sul sicomoro.
Nuovo non significa migliore. Nuovo significa non più disperato. Viviamo un tempo complesso, improvvisamente avvinto da fenomeni globali inediti e inauditi, con esperienze spesso così contradditorie da provocare reazioni polarizzate, tra indifferenza e risentimento. Per un verso, la disperazione ci entra prepotentemente in casa: la disperazione del popolo ucraino violentato, costretto a scappare o a restare sotto la soglia dell’essenziale o a indossare il coraggio indomito contro un invasore spietato; la disperazione di intere famiglie e tantissimi bimbi e giovani che accettano il rischio di un barcone, di un mare sconosciuto, di una notte buia che fa meno paura di ciò che illumina il sole nelle loro terre d’origine; la disperazione di una povertà diffusa, non più relegata in alcune zone del mondo, ma che lambisce le nostre città, i nostri quartieri e ferisce vite che avremmo pensato immuni. Per altro verso, la disperazione è la grande reietta nella narrazione mainstream della prestazione: una realizzazione di sé che si misura in profitto, così da chiudere gli occhi sulla disperazione altrui (non mi riguarda) o giudicarne l’eccesso (persino dallo scranno di un ministero): finché possiamo la evitiamo, facciamo come se non ci fosse e ci riempiamo di distrazioni. Non c’è tempo, vi è un unico imperativo: “sempre di più e sempre più velocemente”. La vita va riempita, aumentata, allungata, potenziata.
O si è disperati o si è performanti. Tertium non datur. Ma la disperazione sa anche indossare l’abito casual e diffondersi viralmente in vite che non credono più alla felicità, che non attendono più alcun avvenire, ma che sanno - all’apparenza - funzionare bene lo stesso. Così si veste di disincanto: nulla vale davvero la pena. E se fossimo tutti contagiati da una disperazione strisciante, persino chi realizza un efficiente funzionamento di sé? Nient’altro che disperati, senza speranza, di una disperazione che non grida, senza volume. Persino chi corre, non si ferma mai, sembra realizzato. Come se fossimo dentro una fuga collettiva, scappando da una disperazione che crediamo non ci riguardi semplicemente perché le nostre vite magari riescono ad arrivare alla fine del mese, hanno un equilibrio lavorativo ed economico, riescono a regalarsi il fine settimana “fuori”.
Esistenze surrogate, in fuga dalla disperazione. Senza un sicomoro sul quale salire.
Non c’è allora novità possibile per gente così, non c’è futuro possibile, ma un immane destino di godimento avvelenato. E lo stesso rischia di valere per tanti cristiani, dimentichi, come scrive Emmanuel Mounier, che, da un lato, proprio al cristianesimo si deve che l’idea di novità sia nel loro caso la più nuova nel mondo, ma, dall’altro, per i quali troppo spesso le promesse di Pasqua scompaiono nella disperazione del Venerdì Santo. Imprigionati tra la novità della Resurrezione di cui non ci si riesce a fidare davvero e la paura di rimanere disperati in un cristianesimo della Passione, si finisce per guardare dall’altra parte, rendendo tutto sterile, come un protocollo, senza saper dare più ragione di sé, oppure per guardare indietro, rendendo tutto nostalgico, come i racconti di una età dell’oro che non è mai esistita ma che fa comodo dirci oramai tramontata.
Così nuova diventa al massimo un’esperienza, ma non la vita.
Non che sia facile. Si sono frantumate molte delle parole attraverso le quali, nei secoli, siamo andati incontro alla novità: progresso, fiducia, speranza, futuro, fede. Abbiamo rinsaldato molte delle parole alle quali riconosciamo la capacità di evitare la nostra personale frantumazione: tradizione, identità, confine, sicurezza. La novità ha finito per coincidere con una possibilità in più che la rivoluzione digitale tecnologica ci consente di avere a portata di mano. Nuovo è ciò che si aggiunge alle nostre possibilità attraverso un dispositivo, senza farci troppe domande sulla responsabilità che ne consegue (altrimenti già si perde il valore della sua velocità) oppure condannandolo come qualcosa di pericoloso a prescindere (finirà per alienarci e allontanarci tutti). Siamo assediati dalla retorica dell’innovazione, ma fuggiamo il rinnovamento.
Singoli rintanati o potenziati, tra assimilazione acritica o nostalgia canaglia.
«Mi veniva detta la parola»: dice lo Zaccheo di Bellet. La parola che ogni essere umano attende dalla nascita e che giustifica che sia nato. Eccola allora la prima novità: la novità c’è e si rinnova. La novità è uno sguardo nuovo sulla vita. Che però non matura da soli. Serve un incontro, viene da altri e dall’altrui fiducia perché a renderla possibile è uno spazio e un tempo comune. Eccola allora la seconda novità: la novità non avviene senza uscire da sé e senza rendere possibile un tempo e uno spazio non più solo miei. Non c’è rigenerazione della vita di ognuno senza una rigenerazione della vita comune, senza l’attesa di una parola da altri che rompa la mia disperazione e renda nuove tutte le cose, perché ammette l’incontro che sembrava impossibile. Zaccheo si scopre nuovo nel momento in cui forse ha meno da vivere rispetto a quanto ha vissuto, ma, rinnovato, non ha angoscia per il tempo che gli mancherà. Oramai non dispera più, e questo gli basta. A noi sembra non bastare più nulla, in cerca perenne di qualcosa di nuovo ma non di vite rinnovate, in affanno di tempo ma senza desiderio di tempi nuovi.
Occorre toglierci dalla testa la GoPro, sempre più piccola, più performante, che non perde nulla di ogni attimo “fuori dal comune” e ci restituisce la velocità e il brivido della prestazione individuale. Occorre guardare dall’alto con il drone, una lente su ciò che è comune, sullo scarto che facciamo finta di non vedere, sui territori e le periferie (delle città o del mondo). Dall’io esaltato al noi dimenticato. Non c’è speranza tra solitudini. Non c’è gioia tra disincantati. Servono allora costruttori di passerelle e ponti, cucitori di occasioni, promotori a scomparsa di incontri. Urgono spazi e tempi in cui le generazioni si guardino e stiano insieme, non per mero altruismo, e in cui si riprenda la faticosa confidenza con ciò che è “comune”, non per mera dedizione.
In fondo, il sicomoro che ci manca.
*professore associato di Filosofia Politica presso il Dipartimento Fissuf dell’Università degli Studi di Perugia. Project Leader della Fondazione Lavoroperlapersona